L’inflazione è spesso definita una “tassa” per il fatto che riduca il potere d’acquisto dei redditi. Ma in un sistema fiscale come il nostro, lo è anche letteralmente. Finché i prezzi al consumo si muovevano negli anni passati al ritmo medio dell’1%, il fenomeno non era neppure percettibile. Adesso che hanno sfondato la soglia di crescita del 6% a febbraio e che si avviano ad agguantare la doppia cifra dopo quasi quattro decenni, gli effetti collaterali rischiano di materializzarsi in sede di dichiarazione dei redditi.

Parliamo del “drenaggio fiscale”, fenomeno che nasce dal combinato tra inflazione e aliquote progressive sui redditi soggetti a tassazione; nel caso italiano, l’IRPEF. Supponete che Mario Rossi nell’anno X abbia dichiarato al Fisco un reddito di 15.000 euro. Tralasciando per semplicità di calcolo le detrazioni spettanti, egli ha dovuto versare il 23%, cioè 3.450 euro. L’anno successivo, lo stesso dichiara un reddito di 16.500 euro, il 10% in più. Ma scopriamo che nello stesso periodo, l’inflazione è stata del 12%. Di fatto, il sig. Rossi è come se avesse guadagnato il 2% in meno.

Un esempio di drenaggio fiscale

Tuttavia, per il Fisco italiano accade quanto segue: sui primi 15.000 euro, tasserà il reddito per 3.450 euro; sulla somma eccedente, interamente rientrante nel secondo scaglione IRPEF, l’aliquota sale al 25% (era al 27% fino al 2021), pari ad altri 412,50 euro. In totale, Rossi verserà al Fisco 3.862,50 euro, il 23,4% del suo reddito. L’anno prima, aveva versato 3.450 su 15.000 euro, cioè il 23%. Cos’è successo? Pur disponendo di un reddito reale inferiore a quello dell’anno passato, l’incidenza dell’IRPEF è cresciuta. In altre parole, al Fisco non importa se il maggiore reddito dichiarato sia reale o nominale; lo tasserà alle più alte aliquote ugualmente.

A rischio di drenaggio fiscale vi sono i cosiddetti redditi “di frontiera”, quelli a cavallo tra uno scaglione IRPEF e l’altro. Per loro sono sufficienti variazioni marginali dei salari nominali per finire tassati in uno scaglione superiore.

Pensate all’effetto negli anni. A un tasso d’inflazione del 2% all’anno, dopo dieci anni l’indice dei prezzi risulta salito del 22%. In pratica, un reddito di 15.000 euro equivarrà dopo un decennio a uno di quasi 18.300 euro. Tuttavia, ad aliquote e scaglioni IRPEF invariati, il Fisco sottoporrà la quota di reddito sopra 15.000 euro al 25% e non al 23%.

Difendere i redditi dal Fisco

Come difendere i redditi dall’inflazione, unita alla voracità dello stato? Una soluzione semplice sarebbe di indicizzare automaticamente gli scaglioni di reddito al tasso d’inflazione dell’anno precedente. Come accade con le pensioni agganciate annualmente all’indice FOI. In questo modo, quale che sarà la crescita dei prezzi al consumo, il contribuente ha la certezza che non pagherà per ciò stesso più tasse. Una simile legge in Italia ancora non esiste, ma sarebbe il caso che il Parlamento si affrettasse ad approvarla. Non si tratta di far perdere gettito fiscale allo stato, semmai che ne incassi indebitamente più di quanto non gli spetti. Del resto, è intuitivo pensare che se gli anni passano e gli scaglioni restano gli stessi con il costo della vita che sale, è come dire che lo stato stia tassando i redditi in misura maggiore.

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