Si avvicina la riforma del reddito di cittadinanza, almeno a sentire le parole pronunciate dalla premier Giorgia Meloni. Nel suo intervento alla Camera, in occasione del voto di fiducia, ha dichiarato che “per come è stato pensato il reddito di cittadinanza ha rappresentato una sconfitta”. Ha aggiunto che intende puntare sul lavoro per combattere la povertà. I soggetti che non possono lavorare, perché sono invalidi, o coloro con figli minori a carico, non perderanno il sussidio. Anzi, per loro ha promesso la premier un aumento dell’assegno.

Numeri del reddito di cittadinanza

Sappiamo dai dati di settembre che ad avere usufruito del reddito di cittadinanza sono stati in 1 milione 159 mila persone per un esborso complessivo di 638 milioni di euro. Ciascun percettore ha incassato in media 550 euro. Nei primi nove mesi dell’anno, poi, l’esborso è stato di 6 miliardi. A conti fatti, la spesa annuale dovrebbe ammontare intorno agli 8 miliardi, qualcosa in meno delle previsioni.

Emergerebbe, poi, che il 60% dei percettori del reddito di cittadinanza non è abile al lavoro. A rischiare di perdere il sussidio sarà, quindi, il restante 40%. Trattasi di persone prive di invalidità e che, pertanto, potrebbero lavorare. Ma Meloni ha parlato anche di chi ha figli minori. Ne consegue che la percentuale di coloro che rischiano di perdere il sussidio sia inferiore al 40%. In soldoni, rischiano i single e chi ha figli già maggiorenni.

Attenzione, perché abilità teorica al lavoro non significa che questi percettori abbiano reali chance di essere assunti. Indipendentemente dalla congiuntura economica, infatti, il 72,3% ha come titolo di studio massimo solo la terza media. Dunque, manodopera poco qualificata e che può ambire nel migliore dei casi a lavori mal retribuiti. C’è anche una questione geografica: il 65% dei percettori vive al Sud, il 15% al Centro e il 20% al Nord.

Durata più corta, niente rinnovo automatico?

Sulla base di questi numeri, ci spingiamo a credere che il governo Meloni non eliminerà il reddito di cittadinanza, ma ne riformerà i criteri di accesso.

Probabilmente, questi diverranno più stringenti e la durata del sussidio sarà accorciata o perlomeno non ci sarà più il rinnovo automatico ogni 18 mesi. Sembra anche di capire che perderanno il diritto anche coloro che si saranno rifiutati di accettare una sola offerta di lavoro congrua. I risparmi per lo stato non sarebbero granché: qualche miliardo di euro, al netto degli eventuali aumenti a favore dei percettori invalidi o con minorenni a carico.

Si tratta, comunque, di un segnale chiaro. Il reddito di cittadinanza non sarà lo strumento prioritario e preferito dal governo per la lotta alla povertà. Tra l’altro i dati ufficiali confermano che il numero delle famiglie povere è salito anche negli ultimi tre anni, forse complice la pandemia. Ci sarà una tendenziale detassazione del lavoro per favorire le assunzioni, unico modo concreto per ridurre il numero degli indigenti. Probabile anche che saranno potenziate misure di politica attiva del lavoro, come la formazione professionale. Con la speranza che non sia affidata alla mangiatoia clientelare delle regioni, bensì alle imprese private. Dio ce ne scampi, poi, dal potenziare i Centri per l’Impiego, i quali non hanno mai funzionato e mai funzioneranno. Alzi la mano chi pensi che siano uno strumento di creazione del lavoro!

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