Il clima sui mercati finanziari era stato all’insegna dell’ottimismo all’inizio dell’anno. Da qualche settimana, il “mood” sembra mutato in peggio. E giovedì l’indice Dow Jones perdeva l’1,66% nel giorno in cui una banca americana vedeva crollare del 60% il prezzo delle sue azioni in borsa. SVB Financial annunciava la vendita di azioni per 1,75 miliardi di dollari e un accordo per la sottoscrizione da parte di General Atlantic per altri 500 milioni. Questa liquidità si rende necessaria per coprire 1,8 miliardi di perdite accusate nel primo trimestre di quest’anno con la vendita del proprio portafoglio obbligazionario.

Per quanto parliamo di una banca di dimensioni relativamente ridotte (7,4 miliardi i ricavi nel 2022), il mondo della finanza ha preso sul serio questa situazione, perché assume tutte le sembianze di una crisi preparata in laboratorio dalle banche centrali. Ieri sera, la drammatica notizia del fallimento per chiusura della banca disposta dalle autorità.

In queste settimane, il mercato sta scontando un rialzo dei tassi d’interesse a livelli massimi superiori a quelli previsti fino a poco tempo fa. Adesso, i tassi BCE dovrebbero portarsi oltre il 4% e quelli fissati dalla Federal Reserve sopra il 5%. Non sarebbero livelli inconsueti, se allargassimo la nostra analisi ad un orizzonte temporale di svariati decenni. Tutt’altro. A inizi anni Duemila, i tassi FED superavano il 6% e negli anni immediatamente precedenti al crac di Lehman Brothers erano al 5,25%. La BCE tenne i tassi di riferimento al 4,25% tra il 2000 e il 2008.

L’era dei rendimenti negativi

Solo che la musica delle banche centrali cambiò proprio nel 2008. Non solo i tassi d’interesse furono azzerati, ma gli istituti s’imbatterono in stimoli monetari senza precedenti, definiti “non ortodossi” per la loro natura di rottura con il passato. Decine di migliaia di miliardi di dollari di liquidità furono iniettati sui mercati sotto forma di acquisti di bond pubblici e persino privati, oltre a prestiti diretti alle banche.

I rendimenti implosero e i prezzi esplosero. L’Europa e il Giappone divennero la patria dei rendimenti negativi, mentre la FED ebbe perlomeno il buon senso di fermarsi un attimo prima che questa follia attecchisse persino negli Stati Uniti.

Tutto per molti anni si tenne assieme grazie alla bassa inflazione. Le banche centrali si fingevano preoccupate per i livelli inferiori ai target registrati dai rispettivi tassi di crescita dei prezzi al consumo. Quella realtà, invece, consentiva loro di continuare ad essere onnipotenti e onnipresenti sui mercati. I loro bilanci si andavano riempiendo di titoli di dubbia qualità e certamente a valori di mercato non sostenibili. Ma quel che è peggio, esse stavano spingendo l’intero sistema finanziario ad ammassare a bilancio asset poco remunerativi o spesso in perdita e con scadenze finanche lunghissime.

Pandemia e guerra sono stati i due incidenti della storia non previsti. Tra chiusure di attività, tensioni sul mercato delle “commodities” e sanzioni tra governi, l’inflazione torna con prepotenza. Le banche centrali la ignorano, derubricandola a fenomeno “transitorio”. E cosa accade quando inizi a curarti in ritardo rispetto ai primi sintomi di una brutta influenza? Il malanno si aggrava e se prima sarebbe bastato qualche giorno di riposo, dopo servono anche le medicine. L’inflazione tra il 2021 e il 2022 è stata lasciata libera di galoppare. Le banche centrali avevano paura di reagire e confidavano in un qualche miracolo per evitare di intervenire. Ma il miracolo non è arrivato, anche perché forse i responsabili di questo disastro preparato in laboratorio non erano meritevoli di riceverlo.

Banche centrali responsabili del disastro finanziario

Ed è così che siamo arrivati al 2022. Inflazione ai massimi da quaranta anni, banche centrali che cambiano linguaggio e opinione e iniziano ad alzare i tassi.

Questi stanno tornando ai livelli pre-Lehman. Solo che nel frattempo la realtà dei mercati è cambiata, anzi stravolta. Per troppi anni banche, fondi e assicurazioni si sono rifocillati di asset finanziari (azioni e obbligazioni) acquistati a prezzi altissimi e con rendimenti nulli o negativi. Con la stretta monetaria, i prezzi sono precipitati e i rendimenti esplosi. Con la conseguenza che i bilanci di chi investe sono strapieni in questa fase di titoli che valgono poco. Se rivenduti, come ha fatto SVB in questi mesi, infliggerebbero grosse perdite.

L’ideale per la finanza sarebbe attendere che questa fase passi per rivendere a prezzi almeno pari ai livelli di carico. Ma ciò resta possibile solo nel caso in cui la clientela non iniziasse a reclamare investimenti dai rendimenti più generosi. Se così fosse, l’esigenza di liquidità costringerebbe a vendere gli asset. Ne scaturirebbero grossi buchi di bilancio, per ripianare i quali servirebbero maxi-ricapitalizzazioni e/o prestiti. Ma ora che il denaro non è più sottocosto come un anno fa, queste operazioni risulterebbero onerose, per alcuni proibitive. Ed è per questo che le banche centrali in cuor loro stanno solo sperando che la loro durezza verbale di queste settimane “raffreddi” le aspettative d’inflazione a tal punto da rendere non più necessari rialzi dei tassi in territorio restrittivo.

Se non bastasse, state certi che tra stabilità dei prezzi e stabilità finanziaria salvaguarderebbero la seconda senza pensarci neppure un secondo. Di milioni di famiglie che si sbattono per far quadrare i conti con un carrello della spesa sempre più caro, importa pochissimo alle banche centrali, se l’alternativa fosse il crac di banche, fondi e assicurazioni. Tornerebbero volentieri ad iniettare liquidità e ad ergersi garanti del sistema, rafforzati dalla pochezza di un sistema politico oramai incapace di reclamare l’assunzione di responsabilità ai soggetti all’infuori della propria orbita immediata. Anche perché gli stessi governi hanno bisogno delle banche centrali per continuare a fare debiti a basso costo, così da accontentare segmenti di elettorato con istanze contrastanti.

Questa non è solo la crisi della finanza propriamente detta, bensì lo specchio di una decadenza mentale dell’Occidente.

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