L’inflazione è il tormentone di questo 2021. L’aumento dei prezzi al consumo è sotto gli occhi di tutti noi. Con l’allentamento delle restrizioni anti-Covid, la domanda per svariati beni e servizi è ripartita, mentre l’offerta non ha sempre potuto tenere il passo, a causa delle famose “strozzature” in fase di produzione. E la carenza di alcune materie prime, chip in testa, ha portato a un drastico calo di auto, elettrodomestici e dispositivi elettronici offerti sul mercato mondiale. Inevitabile l’impennata dei prezzi.

Ma esiste un’inflazione nascosta, non percepita nell’immediato e che, purtuttavia, grava ugualmente sulle nostre tasche. In gergo, si chiama “shrinkflation”. Il termine anglosassone è frutto dell’unione di due parole: “shrink” (“restringere”) e “flation” (da “inflazione”). Sarebbe l’inflazione “da restringimento”. Un’immagine curiosa. A cosa rimanda? Al fatto che certe aziende preferiscano evitare l’aumento dei prezzi in maniera diretta, al fine di non urtare la suscettibilità dei consumatori.

La tecnica è semplice, neppure tanto innovativa: ridurre la quantità offerta a parità di prezzo. Volete un esempio? All’inizio di quest’anno, Findus ha portato la confezione dei filetti di merluzzo da 400 a 360 grammi, ma non ha abbassato il prezzo. Di fatto, il prodotto ha subito un aumento dei prezzi unitario del 10% (40 grammi in meno sui 400 iniziali). Solo che il consumatore in molti casi neppure se n’è accorto. Esistono altri casi del genere, come le bottiglie di Coca Cola passate da 2 a 1,75 litri. O le barrette di cioccolato Milka, da 300 a 270 grammi.

Aumento dei prezzi mascherato per salvare la faccia

Queste riduzioni di prodotto sono registrate dall’ISTAT, il quale calcola l’andamento dei prezzi per kg o litro o metro, secondo, etc. Dunque, l’inflazione non resta propriamente nascosta, semplicemente non è percepita all’impatto, sebbene con il tempo il consumatore se ne renderà conto per via del suo ridotto potere d’acquisto nel corso del mese e dell’anno.

A cos’è dovuta la “shrinkflation”? Alla necessità delle aziende di almeno mantenere le quote di mercato in un ambiente globalizzato sempre più competitivo. Un aumento dei prezzi rischia di eroderle. Peraltro, non sempre i contesti appaiono propizi allo scopo. In un’economia stagnante o malconcia, un’azienda, specie se di marchio altisonante, potrebbe trovare inopportuno segnalare ai clienti di avere alzato i prezzi. La mossa sarebbe percepita opportunistica, insensibile, frutto di avidità. E allora, meglio optare per un ripiego. Evidente che il consumatore più accorto possa accorgersene subito. Ma non parliamo della generalità dei casi.

E c’è chi ha la scusa pronta per giustificare la riduzione della quantità offerta. Come i Coco Pops di Kellog’s, ufficialmente diminuiti di peso per la diminuzione dello zucchero utilizzato. Insomma, un caso di “shrinkflation” mascherato da tutela della salute. Anche questo è marketing.

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