E’ accaduto qualcosa di rivoluzionario venerdì scorso, tra il silenzio della stampa occidentale. A Pechino si sono incontrati il consigliere per la Sicurezza dell’Arabia Saudita, Musaad bin Mohammed Al Aiban e il segretario del Consiglio per la Sicurezza Suprema Nazionale dell’Iran, Ali Shamkhani, entrambi sotto l’occhio vigile di Wang Yi, un alto funzionario diplomatico cinese. Le parti hanno avviato un processo per giungere a un accordo finalizzato a chiudere una lunga era di forti tensioni. Da quando nel 2015 il principe saudita Mohammed Bin Salman (MBS) è regnante di fatto, lo scontro con Teheran è stato durissimo e sfociato in diverse “guerre per procura”.

Drammatica quella combattuta nello Yemen, paese martoriato da scontri civili ormai ultra-decennali. E poi c’è la Siria di Bashar al-Assad. E altre realtà risentono dello scontro saudita-iraniano, come l’Iraq e il Libano.

Proprio lo Yemen dovrebbe essere il primo banco di prova per giungere almeno a una tregua tra le parti. L’Iran sostiene i ribelli anti-governativi Houthi, i quali attaccano spesso con droni il territorio saudita. L’evento dello scorso venerdì è arrivato a sorpresa. Nessuno avrebbe immaginato qualcosa di simile, anche perché nulla aveva fatto sperare in un riavvicinamento tra i due paesi. Arabia Saudita e Iran sono spesso considerati a capo delle due fazioni mussulmane principali: sunniti e sciiti.

Il principe saudita si trova in una condizione di forza. Grazie al boom del petrolio, è riuscito a chiudere il bilancio dello stato nel 2022 con un avanzo di 27,7 miliardi di dollari, pari al 2,6% del PIL. Il colosso petrolifero statale Aramco ha maturato un profitto monstre di 161 miliardi di dollari. Le tensioni con la Casa Bianca sono all’ordine del giorno. Ad ottobre, l’OPEC ha leggermente ridotto la produzione, una mossa che l’amministrazione Biden ha definito di sostegno alla Russia di Vladimir Putin. Nel corso del 2022, MBS si è rifiutato più volte di rispondere al telefono al presidente Joe Biden, il quale chiamava per ottenere un aumento delle estrazioni petrolifere per calmierare le quotazioni internazionali.

Biden e principe saudita in disaccordo

Il principe saudita e Biden si disprezzano a vicenda. In campagna elettorale, il democratico definì il regno “uno stato paria” in relazione all’assassinio Khashoggi. D’altra parte, l’Iran è stato ad oggi un nemico comune ai due paesi. Solo che Riad si è accorta che gli americani hanno la testa altrove e non stanno garantendo quella sicurezza garantita dagli accordi rispetto ai numerosi attacchi iraniani diretti e non. A questo punto, meglio far da sé, avrà pensato il principe saudita. Anche perché il principale cliente per il petrolio non è l’America, bensì la Cina di Xi Jinping: 1,75 milioni di barili al giorno in media nel 2022, circa tre volte in più di quelle verso gli Stati Uniti.

Di recente, Riad e Pechino hanno stretto un accordo per regolare gli scambi anche in valuta locale, cioè senza passare per il dollaro. I cinesi ambiscono a rimpiazzare il dollaro con lo yuan in Asia. E vedono nel riavvicinamento di Arabia Saudita e Iran un’operazione indispensabile per neutralizzare quel “divide et impera” di cui gli americani si sarebbero approfittati negli ultimi decenni per giustificare la loro presenza nel Medio Oriente.

Le conseguenze di un eventuale accordo sarebbero dirompenti per tutta l’area sul piano geopolitico ed economico. In primis, consentirebbe l’allentamento della tensione in stati dilaniati da guerre civili come Siria e Yemen. E vedrebbero la luce in fondo al tunnel anche paesi come il Libano. Beirut è precipitata sin dalla fine del 2019 in una crisi profonda, dalla quale stenta ad uscire per il mancato supporto del regno saudita, essendo considerata un protettorato dell’Iran. Lo stesso Iraq è paralizzato dalle tensioni politiche interne e non riesce ad approfittare della sua ricchezza petrolifera per emanciparsi economicamente.

Stati Uniti a rischio marginalizzazione in Medio Oriente

Non possiamo neppure sovrastimare la portata di un eventuale accordo saudita-iraniano, che punta, anzitutto, a portare benefici ai diretti interessati più che agli stati satellite. Semmai, gli Stati Uniti sarebbero messi in una posizione tutt’altro che facile: trattare con Teheran per un nuovo accordo sul nucleare o rischiare di abbandonare del tutto la Repubblica Islamica alla nuova rete di amicizie asiatiche, cioè a Russia, Cina e un’Arabia Saudita non più controllabile?

E quale sarebbe l’obiettivo finale del principe saudita? MBS punterebbe a fare del suo regno una potenza regionale rispettata e temuta, capace di imporre la sua forte influenza sull’intero mondo mussulmano. Per questo sta rivedendo non solo le sue relazioni con l’Iran, ma anche con la Turchia. Pochi giorni fa, ha depositato presso Ankara ben 5 miliardi di dollari, denaro fondamentale per il presidente Erdogan, a corto di riserve valutarie e a caccia di fondi dopo il terribile sisma di febbraio.

L’America di Biden perde pezzi e la Cina allunga le mani in Asia. L’invasione russa dell’Ucraina ha accelerato meccanismi che avrebbero verosimilmente impiegato molto più tempo per dipanarsi. Paesi come l’Arabia Saudita stanno alzando la testa, consapevoli che i tempi della dipendenza verso l’America sarebbero alle spalle. E cercano di trarre vantaggio dai conflitti tra superpotenze per massimizzare i benefici della loro posizione geopolitica ed economica senza più alcun timore reverenziale verso chicchessia.

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