Lo spread è salito sopra 200 punti base e il rendimento decennale italiano è arrivato al 5%. Sono numeri che iniziano a fare tremare i polsi, facendo scattare sui mercato l’allarme sulla sostenibilità del debito pubblico italiano. La storia è arcinota da molti anni. L’Italia è un’economia che cresce poco e che ogni anno produce deficit. Il rapporto tra debito e PIL tende ad aumentare stabilmente, fatta eccezione per il biennio passato. Prima della crisi finanziaria del 2008, si attestava sotto il 105%. Alla vigilia della pandemia, aveva raggiunto quasi il 135%.

Quest’anno, chiuderemo sopra il 140%.

Tasso implicito giù

In termini relativi, abbiamo fatto molto meglio di altri. Ad esempio, il debito spagnolo è triplicato in rapporto al PIL negli ultimi quindici anni e quello francese è più che raddoppiato. Il fatto è che restiamo l’elefante nella cristalleria. Dopo la Grecia, siamo la nazione europea con il grado di indebitamento più alto. Ecco la ragione per cui i rendimenti italiani risultano essere i più elevati dell’Eurozona, avendo ormai superato stabilmente quelli ellenici.

I numeri, tuttavia, vanno interpretati. E possiamo dimostrarvi come l’allarme debito italiano, pur non essendo infondato, non sia neppure così giustificato come pensiamo. Quest’anno, stando alla Nota di Aggiornamento al DEF (NADEF), pagheremo in interessi sul debito il 3,8% del PIL. Nel quadriennio 2023-2026, la spesa complessiva per questa voce ammonterà a circa il 17%, pari a una media annua del 4,2%. In rapporto al debito italiano, il dato si attesterebbe al 3%. E’ quello che in gergo si definisce il tasso implicito, vale a dire il costo effettivo dello stock.

Allarme debito ridimensionato da cifre

Dobbiamo ancora considerare l’inflazione per capire il costo reale del debito italiano. Sempre stando alla NADEF, essa sarà pari a una media annuale del 3% per il quadriennio considerato. In altre parole, il tasso implicito reale risulterebbe azzerato. In realtà, quest’anno sarebbe nettamente negativo per risalire sopra lo zero negli anni futuri.

Perché vi diciamo questo? Prendiamo come riferimento il decennio pre-Covid 2010-2019. In quel periodo, il tasso implicito fu del 3,3%, di poco superiore alla media attesa per i prossimi anni. E l’inflazione media viaggiò all’1% annuo, per cui il tasso implicito reale si attestò al 2,3%. Detto in parole semplici, il debito italiano ci costò molto di più negli anni pre-Covid in cui i rendimenti nominali furono bassissimi.

Certo, non stiamo parlando di un decennio fortunato. Durante di esso, il rapporto debito/PIL salì dal 115% al 135%. Ad ogni modo, i dati segnalerebbero che la situazione non stia peggiorando per il semplice aumento dei tassi di interesse. Semmai, abbiamo sprecato l’occasione di ridurre il debito italiano negli anni “buoni”. Infatti, l’avanzo primario medio (surplus fiscale al netto degli interessi) nel decennio considerato fu inferiore all’1,5% del PIL. Al 2026, il governo Meloni punta all’1,6%, cioè a tornare ai livelli di avanzo medi dei decenni passati.

Debito italiano ‘business as usual’

Non stiamo dicendo che il debito italiano non sia un problema. Semplicemente, è “business as usual” per un Paese come il nostro alle prese con una complessa gestione fiscale da oltre una trentina di anni a questa parte. Non dobbiamo farci impressionare dai livelli nominali dei rendimenti, perché sono quelli reali a rilevare per la sostenibilità dei conti pubblici. E non è neanche detto che i tassi (reali?) non scendano più in fretta di quanto pensiamo tra calo dell’inflazione e rischio recessione ad incombere sulle prossime mosse della Banca Centrale Europea.

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