Se siete investitori in strumenti finanziari, dovrete aver sentito parlare dell’affrancamento fiscale. E’ stato previsto dalla legge di Bilancio 2023 e prevede possibili risparmi d’imposta, mentre per lo stato la misura serve ad incrementare il gettito nell’anno corrente. I titolari di quote in fondi comuni, SICAV ed ETF (OICR), di azioni e di polizze assicurative di Rami I e IV, potranno sottoporre eventuali plusvalenze maturate al 31 dicembre 2022 ad un’imposta sostitutiva del 14% (16% per le azioni). Poiché questi strumenti generalmente sono sottoposti ad aliquota del 26%, l’investitore avrebbe modo di dimezzare l’onere verso lo stato.

Attenzione a liquidità di provvista

Si può decidere se avvalersi dell’affrancamento fiscale entro il 30 giugno di quest’anno, mentre il pagamento della relativa imposta dovrà avvenire entro il 30 settembre. Messa così, sembrerebbe che convenga sempre esercitare l’opzione. Le cose, però, stanno un po’ diversamente. E vi suggeriamo di affidarvi a un esperto per evitare di compiere le scelte sbagliate. Vediamo i casi in cui sarebbe opportuno non avvalersi dell’affrancamento fiscale.

In primis, nei casi di investimenti in OICR in regime amministrato o di polizze Ramo I e IV, è l’investitore che deve fornire all’intermediario la liquidità di provvista. Se ci si è avvalsi del regime dichiarativo, si deve effettuare il versamento all’Agenzia delle Entrate direttamente. Tra l’altro, l’affrancamento fiscale per le polizze assicurative è possibile solo se la scadenza è successiva al 31 dicembre 2024 e l’investitore non liquiderà prima dell’1 gennaio 2025.

Dunque, se si hanno problemi di liquidità e per pagare l’imposta sostitutiva bisognerà disinvestire qualche asset, meglio rifletterci bene sopra. Qualora il rendimento dell’asset sottostante nel tempo si rivelasse superiore al beneficio maturato grazie all’affrancamento fiscale, il bilancio sarebbe negativo. E se le quote dei fondi o le polizze detenuti investissero in titoli di stato, l’esercizio non avrebbe senso.

Questi strumenti, infatti, sono sottoposti a tassazione con aliquota del 12,50%, inferiore al 14-16% previsto.

Esercizio poco conveniente con forti perdite nel 2022

E c’è la questione del trend degli asset nel tempo. Il 2022 è stato un anno negativo per i mercati finanziari. Bond e azioni hanno ripiegato drasticamente per via dell’aumento globale dei tassi d’interesse. Di conseguenza, è possibile che molti investitori al 31 dicembre scorso abbiano riportato poche plusvalenze o persino perdite in relazione all’investimento complessivo. In questi casi, l’affrancamento fiscale avrebbe uno scarso impatto, a fronte di un possibile onere (la liquidità di provvista) non indifferente.

Facciamo un esempio. Tizio detiene azioni dal valore di mercato di 30.000 euro al 31 dicembre 2022. Le aveva acquistate nel 2020 per 28.000 euro e nel 2021 erano arrivate a salire a 50.000 euro. Pagherà il 16% sulla plusvalenza di 2.000 euro (30.000 – 28.000), cioè 320 euro. Supponiamo che queste azioni tornino ai massimi del 2021 di 50.000 euro e che a quei valori disinvestiremo in futuro. Pagheremo sull’ulteriore plusvalenza di 20.000 euro (50.000 – 30.000) il 26%, cioè 5.200 euro. Se avessimo sottoposto l’intera plusvalenza a tassazione ordinaria (26%), avremmo pagato 5.720 al posto di 5.520 euro (25%). Il nostro risparmio è stato di appena 200 euro, appena l’1% della plusvalenza complessiva.

Affrancamento fiscale in caso di perdite post-2022

E veniamo adesso all’esempio opposto. Al 31 dicembre 2022 abbiamo riportato la plusvalenza di 20.000 euro sui 28.000 euro investiti, ma successivamente il valore degli asset scende a 30.000 euro. Dunque, abbiamo pagato il 16% su 20.000 euro, cioè 3.200 euro. All’atto del disinvestimento, non pagheremmo nulla, perché la plusvalenza è risultata inferiore a quella già affrancata ai fini impositivi. Ebbene, cosa sarebbe accaduto se avessimo evitato l’affrancamento fiscale? Avremmo pagato il 26% su 2.000 euro, cioè 520 euro. In altre parole, ci abbiamo rimesso soldi.

Nessuno può sapere a priori quale sarà il valore degli asset detenuti quando sarà arrivato il momento di disinvestire. Altra cosa se ci avvalessimo dell’affrancamento fiscale e decidessimo contestualmente di disinvestire in toto.

In quel caso, conosciamo a quali valori venderemo e sapremo fare i conti. In generale, la regola può sintetizzarsi nella seguente indicazione: se disinvestiamo con plusvalenze finali inferiori all’85,7% (62,5% per le azioni) di quelle maturate al 31 dicembre 2022, meglio sarebbe il mancato esercizio dell’affrancamento fiscale.

Da cosa derivano quelle due percentuali indicate? Sono il rapporto tra l’aliquota ordinaria del 26% e l’aliquota dell’imposta sostitutiva del 14-16%. In pratica, esisterà un livello di plusvalenze rispetto a quello al 31/12/2022, al di sotto del quale l’affrancamento fiscale si tradurrà in una perdita. Non sarebbe possibile, ripetiamo, conoscere a priori l’andamento dei prezzi futuri. Possiamo aiutarci con le previsioni degli analisti e i dati storici. Ma vanno sempre presi “cum grano salis”.

[email protected]