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Oggi: 05 Dic, 2025

Ecco come Starmer potrebbe mettersi a capo della Banca d’Inghilterra

Aria di crisi finanziaria nel Regno Unito, ma il governo Starmer potrebbe giocarsi la carta dell'emergenza per guidare la Banca d'Inghilterra.
3 mesi fa
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Starmer e Banca d'Inghilterra
Starmer e Banca d'Inghilterra © Licenza Creative Commons

Le avvisaglie di una crisi fiscale ci sono tutte. Non si parla di “effetto Truss” per il semplice motivo che è stato somatizzato da tempo dall’opinione pubblica e dallo stesso establishment nel Regno Unito. I mercati parlano chiaro. Il rendimento a 30 anni è salito ai massimi dal 1998, superando il 5,70% questa settimana. Il governo di Keir Starmer non sa come tappare le voragini del bilancio, con il deficit al 4,8% nel 2024 e che potrebbe persino salire al 5% quest’anno. C’è sfiducia crescente nei confronti del suo operato. E la Banca d’Inghilterra potrebbe non più tagliare i tassi di interesse dal 4% a cui sono stati portati in agosto.

Con un’inflazione salita a luglio al 3,8%, i margini non ci sarebbero.

Governo Starmer in crescente difficoltà

Tutto procede nella direzione opposta a quella desiderata da Downing Street, che in settimana ha proceduto con un rimpasto. L’operazione sta offrendo l’immagine di un cancelliere dello Scacchiere, figura corrispondente al nostro Tesoro, commissariato. Rachel Reeves si trova a redigere la sua seconda manovra di bilancio senza più sapere cosa fare. Non può permettersi di gravare sui conti pubblici, ma se li risana rischia la cacciata dopo l’umiliazione a luglio ad opera di un’ampia fronda di parlamentari laburisti. Ha trascorso il primo anno a fare e disfare le sue stesse leggi, a causa dei riscontri negativi tra l’opinione pubblica. E i miliardari lasciano Londra a ritmi impressionanti, preferendo mete più favorevoli sul piano fiscale come l’Italia.

Rivoluzione alla Banca d’Inghilterra con Tony Blair

E se a mali estremi si ponessero estremi rimedi? In tempi di trumpismo, nulla deve essere dato per scontato.

Decenni di etichette e prassi consolidate sono stati spazzati via dalla svolta alla Casa Bianca. Non sono in molti a sapere che il governo di Sua Maestà, se lo volesse, potrebbe porsi a capo della Banca d’Inghilterra. Può sembrare una farneticazione di fine estate, mentre si tratta di dati di fatto. L’indipendenza della “Old Lady”, fondata nel lontano 1694, è molto recente. Risale al 6 maggio del 1997, quattro giorni dopo la storica vittoria di Tony Blair alle elezioni generali. Egli pose fine al lungo regno conservatore durato 18 anni tra Margaret Thatcher (1979-1990) e John Major (1990-1997).

Entro 100 ore dalla vittoria, il neo-nominato cancelliere Gordon Brown (sarebbe diventato primo ministro tra il 2007 e il 2010) fece la storia. Annunciò un rialzo dei tassi dello 0,25% al 6,25%, chiarendo che sarebbe stato l’unico ad essere disposto dalla sua persona. Infatti, fino a quel momento la politica monetaria era gestita dal cancelliere in sintonia con il governatore. La riforma, codificata nel Bank of England Act del 1998, trasferì il potere nelle mani del secondo. Un board di politica monetaria si sarebbe riunito mensilmente per decidere se aumentare, tagliare o tenere invariati i tassi.

Stabilità dei prezzi minacciata dai governi

L’allora governatore Eddie George parlò di “passo significativo”. Paradossale che possa apparire, i conservatori attaccarono la riforma con l’ex cancelliere Kenneth Clarke a paventare un rialzo dei tassi ai danni di imprese e famiglie.

Il suo collega di partito e anch’egli ex cancelliere, Norman Lamont, invece, si schierò a favore. E dire che l’indipendenza della Banca d’Inghilterra sia stata una cosa “di destra”, avendo fatto venire meno la possibilità per i governi di intromettersi negli affari monetari per sostenere indebitamente l’economia a colpi di monetizzazione del deficit e tassi bassi.

Brown difese la riforma con la convinzione che una Banca d’Inghilterra indipendente avrebbe più facilmente preservato la stabilità dei prezzi. Al contempo, venne fissato l’obiettivo di un tasso d’inflazione annuo del 2,5% (“inflation targeting”). Di fatto, i laburisti riconobbero che i governi minacciano il potere di acquisto con politiche volte a preservare il consenso. La rivoluzione si spiega con il fatto che essi ebbero la necessità di mostrarsi responsabili e credibili in politica economica dopo i successi dell’era thatcheriana. I mercati temevano, infatti, che il ritorno della sinistra al governo avrebbe smantellato tutto ciò che di buono era stato fatto negli anni della Lady di Ferro, tra cui la riduzione dell’inflazione, il risanamento fiscale e il rilancio della crescita economica.

Poteri di riserva in capo al governo

La riforma del ’97-’98, tuttavia, conservò in favore del governo i cosiddetti “reserve powers”, oltre che la fissazione dell’obiettivo per il tasso di cambio della sterlina. In “circostanze economiche estreme”, il governo può riappropriarsi dei vecchi poteri per imporre ordini alla Banca d’Inghilterra. In pratica, se la situazione finanziaria degenerasse, Starmer avrebbe la possibilità legale di fissare i tassi attraverso il suo cancelliere e/o di monetizzare il debito con l’acquisto di Gilt.

Ciò non accadde nel 2008, quando il Regno Unito rischiò grosso con la crisi bancaria importata dagli Stati Uniti. Ma era un’altra fase. Certo, un passo simile scatenerebbe inquietudini tra gli investitori. I costi potrebbero superare i benefici. Famiglie e imprese perderebbero fiducia nella capacità della Banca d’Inghilterra di tutelare la stabilità dei prezzi. Inizierebbero a comportarsi come se l’inflazione fosse più alta e magari non si fiderebbero dello stato come emittente sovrano.

Tornare a meno di trenta anni fa sembra semplice, mentre sarebbe complicatissimo. Il mondo ragiona in maniera assai differente rispetto a quando era a Downing Street che veniva fissato il costo del denaro.

Indipendenza della Banca d’Inghilterra non più scontata

Questo scenario resta, però, tutt’altro che immaginario. Siamo entrati nell’era trumpiana del tutto è possibile. Non ci sono più tabù espliciti. I paradigmi dei decenni scorsi stanno cadendo uno ad uno. Un po’ tutte le grandi banche centrali si trovano a fare i conti con la necessità di lottare contro l’inflazione da un lato e di preservare la stabilità fiscale dall’altro. La politica ha iniziato ad alzare la testa nei confronti dei banchieri, pur in maniera meno eclatante di come stia facendo da mesi il presidente americano con il maltrattato governatore Jerome Powell. La Banca d’Inghilterra per ora resta indipendente. La domanda è fino a quando.

giuseppe.timpone@investireoggi.it 

 

 

Giuseppe Timpone

In InvestireOggi.it dal 2011 cura le sezioni Economia e Obbligazioni. Laureato in Economia Politica, parla fluentemente tedesco, inglese e francese, con evidenti vantaggi per l'accesso alle fonti di stampa estera in modo veloce e diretto. Da sempre appassionato di economia, macroeconomia e finanza ha avviato da anni contatti per lo scambio di informazioni con economisti e traders in Italia e all’estero.
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