Il referendum è stato un fiasco già prima che si conoscessero i risultati del voto di domenica e lunedì. Ha avuto l’effetto non propriamente positivo di dividere i sindacati. La CGIL se ne era fatta promotrice, la UIL aveva sostenuto (senza vigore) due soli quesiti e la CISL aveva lamentato che lo strumento referendario non fosse il più adatto per affrontare simili temi. Questo quadro ci consegna un sindacato in ordine sparso anche riguardo all’approccio sulle politiche del lavoro. In questi anni, i toni sono stati assai diversi. La CGIL ha riscoperto la lotta di classe dopo anni di inabissamento, mentre UIL e CISL hanno mantenuto una posizione più dialogante sia con le imprese che con il governo.
Politiche del lavoro, Landini isolato sul salario minimo
Ed è proprio sulle politiche del lavoro che ci s’interroga all’indomani del flop ai referendum. Maurizio Landini ha fin qui invocato il salario minimo legale, che è una contraddizione in terminis per una grossa sigla sindacale. Di fatto, chiede che la legge automaticamente faccia il lavoro al posto suo, indebolendone così la capacità negoziale e rappresentativa. E in Italia, poi, la contrattazione collettiva copre quasi tutti i lavoratori dipendenti, per cui è lì che bisognerebbe trovare la forza per spuntare retribuzioni orarie più alte con riferimento alle variegate condizioni settoriali.
Da ieri, però, Pierpaolo Bombardieri e Daniela Fumarola sono più forti, mentre Landini è andato a sbattere. Non si dimetterà da segretario della CGIL e, anzi, ha annunciato che da qui inizia “il sindacato di strada”. Ma ne esce molto compromesso. Se l’affluenza fosse stata del 40% o anche poco meno, avrebbe potuto vantare una capacità di mobilitazione che non c’è stata, invece.
Le sue chance di rimpiazzare Elly Schlein alla guida del Partito Democratico sembrano essere svanite dalle ore 15.00 di ieri. Questa si è coperta a sinistra, anche se rischia la guerra intestina per mezzo dell’ala riformista.
Più sforzi sul cuneo fiscale
Dunque, cosa accadrà sul piano più prettamente relativo alle politiche del lavoro? Le posizioni dialoganti di CISL e UIL si sono rafforzate. E il governo Meloni avrà tutto l’interesse a premiarle. Come detto, il salario minimo è fuori discussione. L’esecutivo sta lavorando all’estensione della copertura per i lavoratori sprovvisti di contratto collettivo. Sarebbero fatti ricadere sotto il contratto della categoria più affine. Ma il tema dei salari si risolve anche abbattendo imposte e contributi in busta paga. Qualcosa si è fatto, ma non basta. Servono soldi, il problema è sempre quello. Il ceto medio ha visto finora ben poco. Parliamo dei redditi a partire dai 35.000 euro lordi all’anno.
“Svolta” a sinistra su immigrazione
C’è un altro tema che da ieri scuote il centro-sinistra e la stessa CGIL: la cittadinanza. Il quinto quesito prevedeva di ridurre da 10 a 5 anni i tempi minimi per poter richiedere la cittadinanza italiana. Si sono espressi a favore in 9 milioni contro gli oltre 12 che hanno votato “sì” per gli altri quattro quesiti.
Questo significa che esistono almeno 3 milioni di elettori dello stesso “campo largo” ad essersi espressi contro. In altre parole, almeno un quarto di chi vota a sinistra non aderisce alle posizioni immigrazioniste di PD e alleati. Un dato che avrà riflessi sulle stesse politiche del lavoro.
Finora, il mantra del Nazareno è stato che il governo debba puntare sull’immigrazione per contrastare la bassa natalità (le famose “risorse” che ci pagano le pensioni) e far svolgere agli extra-comunitari quei lavori che noi italiani non vorremmo più fare. Adesso, si ribaltano i termini della discussione: non è che gli italiani non vogliano più fare i lavori malpagati? Soprattutto, ha senso continuare a puntare sul basso costo del lavoro per competere con economie come Cina e Vietnam, perdendo di vista che la crescita di un’economia sviluppata passa per la capacità d’innovazione delle sue imprese?
Politiche del lavoro, concretezza e stop a slogan
Il referendum sarebbe dovuto essere nelle intenzioni della sinistra una scorciatoia per tentare la spallata contro il governo. Non solo non c’è stata, ma è finito per svelare alcune ipocrisie dei progressisti. Se fino a ieri era facile additare come “razzisti” gli avversari per le loro posizioni ostili al “ius soli” e frontiere aperte, ora a mettere in discussione la linea ufficiale è gran parte del loro stesso elettorato. Questo dato avrà riflessi forti sulle politiche del lavoro: più attenzione alle richieste che si levano dai lavoratori meno qualificati, specie nelle aree più depresse del Paese. L’era degli slogan è stata seppellita dal 70% di astenuti.
giuseppe.timpone@investireoggi.it



