L’importanza della pensione di reversibilità è indiscutibile. Per molti beneficiari – che siano il coniuge superstite, l’ex coniuge o altri soggetti aventi diritto – essa rappresenta un sostegno necessario. Spesso si tratta dell’unica fonte di reddito, visto che i beneficiari erano a carico del defunto quando questi era in vita.
Per questo, il solo pensiero di una possibile revoca della prestazione può generare forte apprensione. Ed è proprio questo il rischio che oggi diventa più concreto, dopo una recente sentenza della Cassazione che, sorprendentemente, ha dato ragione all’INPS, il quale aveva revocato a un beneficiario una pensione di reversibilità già concessa.
Pensioni di reversibilità a rischio? Ecco perché l’INPS può toglierla adesso
Il caso riguarda una vicenda giudiziaria durata molti anni, tra ricorsi, controricorsi, Tribunali, Corti d’Appello e Cassazione. Una vicenda complessa che ora ha prodotto una decisione destinata a fare da precedente pericoloso, poiché sancisce la possibilità per l’INPS di revocare, in determinati casi, la pensione di reversibilità.
È bene precisare che nulla cambia per il coniuge superstite, che continuerà a percepire regolarmente e legittimamente la prestazione. Il nodo riguarda situazioni particolari, come ad esempio i figli disabili del defunto, che hanno diritto a una quota della pensione purché risultassero a carico del genitore al momento del decesso.
Il caso emblematico riguarda una ragazza che aveva perso il padre nel 1990 e che solo nel 2009 – ben 19 anni dopo – aveva presentato domanda per la pensione di reversibilità. Un ritardo che ha aperto una controversia spinosissima, tra regole di prescrizione e diritti assistenziali.
Ecco la situazione da cui scaturisce la pronuncia degli ermellini della Cassazione
La richiedente era una persona disabile, effettivamente a carico del padre in vita, con limiti reddituali che ne dimostravano la non autosufficienza economica.
Tutti i requisiti, dunque, sembravano presenti, anche se con un ritardo notevole nella richiesta.
Diversi Tribunali avevano dato ragione alla donna, accogliendo il ricorso e riconoscendo la pensione che l’INPS aveva negato per prescrizione. Secondo quei giudici, infatti, l’INPS non aveva dimostrato con precisione la data di decorrenza della prescrizione, e dunque non poteva invocarla.
La questione si è complicata ulteriormente perché l’INPS chiedeva l’annullamento dei ratei arretrati in base alla prescrizione quinquennale introdotta dal DL n. 98/2011, mentre tradizionalmente per le prestazioni previdenziali si applica la prescrizione decennale.
La Cassazione, però, ha ribaltato le decisioni precedenti, accogliendo la tesi dell’INPS: l’ente previdenziale può eccepire la prescrizione anche senza indicare esattamente la data da cui farla decorrere, lasciando al singolo giudice il compito di valutare il caso e deliberare di conseguenza.
Ecco cosa può accadere adesso, non solo sulla pensione di reversibilità ma anche su arretrati e ratei di altre prestazioni
Il problema sollevato dalla sentenza va ben oltre le pensioni di reversibilità. Infatti, se è vero che il diritto alla pensione non ha scadenza, è altrettanto vero che ratei arretrati e arretrati non riscossi sono soggetti a prescrizione.
I termini canonici sono di 10 anni, ma ora l’INPS, forte della pronuncia della Cassazione, potrà negare l’erogazione di prestazioni arretrate.
E senza dover fornire un calcolo puntuale della decorrenza. Saranno i giudici, caso per caso, a stabilire se i termini di prescrizione sono effettivamente scaduti.
Questa decisione apre dunque scenari delicati, che potrebbero riguardare non solo la pensione di reversibilità, ma anche altri trattamenti previdenziali e assistenziali.