Rendimento decennale sopra il 5% con lo spread tra BTp e Bund ad avere oltrepassato la soglia dei 200 punti base. I titoli del debito pubblico italiano tornano sotto i riflettori. Sono notoriamente l’elefante nella cristalleria per via dell’impatto enorme che rischiano di avere sul resto dell’Eurozona. E la prossima settimana la Banca Centrale Europea (BCE) riunisce il board ad Atene. A porte chiuse, i governatori centrali e i consiglieri esecutivi discuteranno delle varie opzioni sul tavolo, tra cui un ennesimo e forse ultimo aumento dei tassi di interesse e la fine dei riacquisti dei bond con il PEPP.

Il PEPP sta per Pandemic emergency purchase programme. Fu varato nel marzo del 2020, a pochi giorni di distanza dal “lockdown” in Italia contro la pandemia. Rimasto attivo esattamente per due anni, consistette nell’acquistare bond sovrani e corporate per tenerne a bada i rendimenti e reagire così agli effetti del Covid sull’economia nell’Eurozona. A differenza del Quantitative Easing, il programma fu sin da subito reso flessibile. La BCE ha potuto acquistare anche titoli di stato della Grecia, pur essendo giudicati “junk” o “spazzatura” dalle agenzie di rating, nonché deviare dalla “capital key”. Questa è la regola in base alla quale gli acquisti dei bond sovrani sono realizzati in misura percentuale pari alla quota di capitale detenuta dalla banca centrale nazionale nella BCE. A sua volta, essa rispecchia le dimensioni economiche del singolo stato.

Rischi per spread da chiusura anticipata

La BCE ha sospeso gli acquisti netti con il PEPP nel marzo dello scorso anno. Tuttavia, si è impegnata a reinvestire i proventi dei bond in scadenza fino a tutto il 2024. In pratica, da qui ad oltre un anno gli oltre 1.700 miliardi di euro di obbligazioni in scadenza saranno rinnovati automaticamente. Per le sue caratteristiche, il programma è considerato una prima linea di difesa contro gli spread.

All’occorrenza, infatti, l’istituto può acquistare i titoli di stato in sofferenza in misura relativamente maggiore, così da restringerne i differenziali di rendimento.

Da settimane i funzionari della BCE teorizzano la chiusura anticipata del PEPP, vale a dire il taglio dei riacquisti. In questo modo, si ridurrebbe la liquidità sui mercati e si perseguirebbe con maggiore efficacia la lotta all’inflazione. L’effetto collaterale di questa chiusura consisterebbe nell’aumento dei rendimenti sovrani. La minore domanda costringerebbe i governi a rivolgersi ancora di più ai mercati per rinnovare il debito in scadenza e ciò spingerebbe in alto i costi di emissione. Ad esserne colpiti sarebbero particolarmente i bond considerati più rischiosi, cioè essenzialmente i BTp.

Fine PEPP non scontata

Alla BCE sinora negano che esista un problema Italia, ma a porte chiuse è verosimile che la prossima settimana si parli del rischio legato alla fine del PEPP. Eventuali tensioni sui BTp costringerebbero la BCE ad intervenire a loro sostegno, intralciando la propria stessa stretta monetaria. La credibilità dell’apparato di misure messe in campo contro l’inflazione verrebbe meno. Per queste ragioni, la chiusura anticipata del PEPP sarebbe tutt’altro che scontata. Questo sposterebbe eventualmente il dibattito attorno alla necessità di continuare ad alzare i tassi. Ancora una volta, però, gli effetti sui titoli più deboli si farebbero sentire. E’ il pegno che l’Eurozona paga per non avere saputo coordinare un’unica politica monetaria con venti politiche fiscali differenti.

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