A dispetto della view comunemente condivisa, gli investitori azionari hanno avuto ragione a ignorare in larga parte il mercato obbligazionario l’anno scorso. Per capire perché, vale la pena considerare come dovrebbero muoversi prezzi obbligazionari e azionari. Un argomento ricorrente è che la relazione dovrebbe riflettere il valore relativo delle azioni e delle obbligazioni, comparando per esempio il rendimento, in termini di utili, sulle azioni rispetto al rendimento obbligazionario.

 

L’intuizione è immediata. Se i rendimenti obbligazionari salissero, così come è largamente condiviso, le valutazioni azionarie dovrebbero diminuire per offrire un rendimento più interessante in termini di utili – fa notare Larry Hatheway, capo economista di GAM -.

Questo approccio, definito “Fed model” benché abbia poco a che vedere con la Federal Reserve, si è diffuso nei primi anni Novanta. Se quell’approccio fosse vero, a parità di condizioni, le valutazioni azionarie dovrebbero sempre diminuire all’aumentare dei rendimenti obbligazionari e viceversa. Tuttavia questo non sempre accade, suggerendo che forse non è poi così uguale neanche “tutto il resto”. Le valutazioni azionarie possono fluttuare per altre ragioni, in particolar modo variazioni nella crescita degli utili e nel premio al rischio per il mercato azionario, nessuna delle quali sono esplicitamente catturate dal “Fed model”.

 

Le valutazioni azionarie

 

Le valutazioni azionarie possono essere interpretate come una serie di dividendi futuri, propriamente scontati, laddove il tasso di sconto riflette la somma del rendimento obbligazionario e del premio azionario al rischio. Perciò, la risposta delle valutazioni azionarie ai cambiamenti del mercato obbligazionario dipende da come dividendi attesi futuri e il premio al rischio azionario si aggiustano ai cambiamenti nei rendimenti dei bond.

 

La correlazione fra rendimenti dei bond e prezzi delle azioni

Esaminiamo il seguente esempio: i rendimenti obbligazionari aumentano, riflettendo la miglior crescita nominale del Pil, e questo spinge al rialzo la somma dei futuri flussi di dividendi in egual maniera, senza alcun impatto sul premio al rischio azionario.

In questo caso, le valutazioni azionarie sono pressoché invariate in quanto l’aumento, che avviene sia a livello di numeratore sia di denominatore, si compensa reciprocamente. Questo risultato stride con il “Fed model”, la cui previsione sarebbe una compressione del multiplo di mercato. Certamente, in circostanze “normali” – osserva Hatheway  – si dovrebbe partire dal presupposto che i rendimenti obbligazionari, i quali riflettono le informazioni attuali sulla crescita futura del Pil nominale, e i futuri dividendi attesi – che nel complesso sono fortemente correlati alla crescita futura del Pil nominale – dovrebbero in larga parte muoversi in tandem. Se fosse così, in tempi normali, cambiamenti nei rendimenti obbligazionari non avrebbero alcun impatto, né significativo né prevedibile, sui prezzi azionari.

 

Rendimenti obbligazionari e cicli economici

 

Ma è sempre corretto supporre che il premio al rischio azionario sarà impermeabile a cambiamenti nei rendimenti azionari, ovvero che non venga intaccato da cambiamenti ciclici? Tutto ciò non è certo – dice Hatheway –  in particolare quando le condizioni cicliche si muovono agli estremi. Ad esempio, quando l’attività economica è in netto calo e l’inflazione vira in territorio negativo, i rendimenti obbligazionari vengono meno e i prezzi azionari di solito diventano interessanti. Verosimilmente questo risultato rispecchia un deciso rialzo nel premio al rischio azionario dato che il rischio di default, o di perdita totale per l’investitore azionario, sale nel momento in cui si innesca una dinamica deflativa. D’altro canto, quando l’inflazione accelera oltre le misure convenzionali di “stabilità del prezzo”, il rischio ciclico cresce. In un’economia che sta attraversando una fase di surriscaldamento, la crescita dei rendimenti obbligazionari è accompagnata da un incremento del premio a rischio azionario e un declassamento delle azioni, fenomeno cui abbiamo assistito per esempio durante l’inflazione degli Anni Settanta.

 

I due casi precedenti – conclude Hatheway –  sebbene estremi, dimostrano come i prezzi azionari e quelli obbligazionari non siano sempre positivamente correlati, come predetto dal “Fed model“. Invece, durante episodi di deflazione, la correlazione può essere negativa, mentre quando l’economia si surriscalda la correlazione è tipicamente positiva.