L’aumento di capitale di Monte Paschi di Siena (MPS) ci sarà. Saranno offerte 1,25 miliardi di nuove azioni al prezzo cadauno di 2 euro. Agli attuali azionisti saranno concesse in opzione 374 azioni per ogni 3 possedute. Il prezzo incorpora uno sconto sul TERP del 7,79%. E la reazione del mercato obbligazionario non si è fatta attendere: il bond MPS subordinato con scadenza 18 gennaio 2028 (ISIN: XS1752894292) si è impennato in un paio di sedute, salendo dagli appena 47,53 centesimi della chiusura del 7 ottobre ai 73 centesimi di giovedì.

C’è stato, dunque, un balzo di oltre il 50%. Saranno stati soddisfatti gli investitori che avevano acquistato il titolo ai minimi e che avranno già potuto rivenderlo in fortissimo guadagno dopo pochi giorni.

Il bond MPS è, peraltro, un callable già dal prossimo 18 gennaio. Se a quella data la banca senese esercitasse la facoltà di rimborso anticipato, il rendimento per gli obbligazionisti sarà stato di oltre il 200%. Tuttavia, era arrivato vicino al 400% durante la scorsa settimana. Chiaramente, il mercato non starebbe scontando alcuna call. E dati gli altissimi costi di rifinanziamento del debito, ci mancherebbe che l’emittente cercasse di saldare i debiti in anticipo.

Bond MPS su, si allontana rischio “haircut

Il rendimento alla scadenza del bond MPS è sceso, invece, a circa il 10,50%. In ogni caso, resta elevato per una banca controllata dallo stato al 64,3%. Tornando all’aumento di capitale, il Tesoro parteciperà per 1,6 dei 2,5 miliardi previsti. Axa metterà 150 milioni, mentre Anima appena 25 milioni. Ma la novità di questo giovedì è stata che l’AD Luigi Lovaglio ha sottoscritto un accordo con un consorzio bancario per 807 milioni, a cui si aggiungono 100 milioni di altri fondi, tra cui 50 da Algebris. Seguono ulteriori impegni per 37 milioni.

A conti fatti, 2,5 miliardi saranno trovati anche se il mercato disertasse totalmente l’operazione, cosa che con ogni probabilità avverrà. I bond MPS subordinati risalgono velocemente per l’allontanarsi del rischio “haircut”, il taglio del valore nominale per ridurre la massa passiva.

Peggio ancora, il “burden sharing” sarebbe scattato nel caso in cui l’aumento di capitale fosse fallito o non si fosse affatto tenuto. Il salvataggio pubblico che ne sarebbe seguito avrebbe obbligato lo stato a chiedere prima la compartecipazione alle perdite agli azionisti e, in seconda battuta, agli obbligazionisti subordinati e senior. Ciò è dovuto alla disciplina sui salvataggi bancari nota come “bail-in”, entrata in vigore nel 2016 e che recepì nel 2014 la direttiva comunitaria BRRD.

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