Il Sud America ha vissuto un anno da incubo anche sul piano finanziario. Sono stati ben sei i casi di default, di cui la metà hanno riguardato il Suriname. Parliamo anche di Ecuador, Argentina e Belize. Il governo di Paramaribo ha dovuto alzare bandiera bianca tre volte sotto la pandemia. In aprile, il comitato degli obbligazionisti ha approvato con oltre l’87% dei voti la sospensione dei pagamenti di cedole e dell’ammortamento del capitale fino al prossimo 30 luglio. Nel frattempo, il Suriname ha cercato di stringere un accordo con il Fondo Monetario Internazionale (FMI) da 690 milioni e paradossalmente è finito per irritare i creditori.

Questi si sono sentiti esclusi dalle trattative e nei giorni scorsi hanno minacciato di ritirare il loro appoggio all’accordo e di pretendere, quindi, i pagamenti rinviati.

Il governo si è difeso, sostenendo che il default del Suriname sarebbe stato gestito nella massima trasparenza. Pomo della discordia sono i progetti di sfruttamento delle risorse petrolifere e del gas. Secondo i creditori, andrebbero tenuti in considerazione per stimare le capacità fiscali dello stato. Ma ad avviso dell’FMI, i pagamenti andrebbero gestiti senza tenere conto di tali apporti futuri.

Default del Suriname, accordo con creditori a rischio

I bond sovrani oggetto della ristrutturazione in corso sono due scadenze in dollari: quella al 30 dicembre 2023 e cedola 9,875% (ISIN: USP68788AB70) e l’altra al 26 ottobre 2026 e cedola 9,25% (ISIN: USP68788AA97). Quest’ultima è scesa a una quotazione inferiore a 77 centesimi e offre così un rendimento del 23%. La prima è crollata ad appena 55 centesimi. Prevede la corresponsione del capitale in otto tranche semestrali fino alla scadenza. E proprio una di queste rientra tra i 675 milioni di dollari di pagamenti “congelati”.

Le agenzie di rating non hanno potuto che prendere atto della condizione fiscale gravissima in cui versa il paese, assegnando al debito sovrano in valuta estera il giudizio di Selective Default (S&P), C (Fitch) e Caa3 (Moody’s).

In effetti, con la pandemia il rapporto tra debito e PIL è esploso sopra il 145%. I creditori in rivolta sono gli stessi che posseggono il 43% dei due suddetti bond, tra cui troviamo Franklin Templeton, Eaton Vance Management e Greylock Capital.

Il 2020 è stato un anno nero per i default nel mondo, superando nettamente il precedente apice toccato con la crisi finanziaria mondiale. Tra i grandi paesi ad essersi arresi all’evidenza, oltre ad Argentina ed Ecuador, ci sono stati anche Zambia e Libano. Quest’ultimo resta tutt’ora in default e senza alcuna prospettiva di accordo con gli obbligazionisti. Peraltro, la sua crisi fiscale è arrivata prima del Covid e prescinde del tutto dalle sue conseguenze sull’economia.

[email protected]