La Fase 2 è effettivamente partita oggi, anche se con condizioni e soluzioni differenti nelle differenti regioni del Paese: un noto biologo americano ha spiegato al New York Times quali sono i luoghi in cui ci si ammala di più e perché.

In questo senso, intendiamo anche sottolineare alcuni casi clamorosi di contagio da Coronavirus che provengono dalle cronache nostrane e straniere, per comprendere fino in fondo quali comportamenti evitare.

Dove ci ammala di più di Coronavirus: i luoghi più a rischio, attenzione alla Fase 2

Il professore di biologia dell’Università del Massachusetts a Dartmouth, Erin S. Bromage, ha spiegato sulle pagine del New York Times (l’articolo è stato poi tradotto dal Corriere della Sera) come il rischio maggiore sia connesso soprattutto all’esposizione respiratoria, sottolineando comunque come l’igiene delle mani e delle superfici sia comunque necessaria, anche se ha mostrato un’incidenza minore nelle fasi di contagio.

Il principio di contagio, secondo Bromage, è quello dell’esposizione al virus per un arco temporale piuttosto lungo. Significa fondamentalmente che i luoghi chiave del contagio sono quelli chiusi, con persone che in un modo o nell’altro sono a stretto contatto, e che parlano, cantano o gridano.

Si è potuto appurare drammaticamente (e a in conseguenza di scelte politiche sbagliate) come i luoghi maggiori di diffusione del contagio da Coronavirus siano state proprio le case di cura, ma negli Stati Uniti hanno avuto un ruolo anche i penitenziari, i luoghi dove si svolgono cerimonie religiose, i call center, i luoghi per sport al chiuso.

I luoghi in generale più a rischio sono i seguenti: la casa, qualora un parente sia portatore del virus ma ancora asintomatico – in questo caso uno dei suggerimenti dati è quello di tenere sempre abbassata la copertura del water, perché il virus sopravvive a lungo nelle deiezioni e lo scarico può creare effetto aerosol e spanderlo nell’aria); i posti di lavoro, come testimoniato anche in Italia, dove la diffusione è stata maggiore nelle regioni con maggiore concentrazione di attività produttive, come le fabbriche lombarde, molte delle quali non hanno mai effettivamente chiuso; i mezzi del trasporto pubblico, i ristoranti e in generale i luoghi pubblici di assembramento.

E i negozi? Secondo i dati provenienti dai tracciamenti, si tratterebbe di un luogo secondario per la diffusione del Coronavirus: dipende, ovviamente, dall’ampiezza dei locali e quindi dai possibili assembramenti.

In vista delle aperture delle attività commerciali, occorrerebbe, secondo il biologo, un’attenta analisi a partire da una serie di fattori ambientali: 1) il volume dell’aria circolante, 2) il numero di persone, 3) il tempo di permanenza di ogni singolo cliente.

Alcuni casi di cronaca di contagi collettivi

In questo senso, può essere utile ricordare alcuni casi di cronaca particolarmente clamorosi che hanno provocato contagi collettivi in numero elevato all’interno di luoghi chiusi:

  1. In un ristorante di Guangzhou in Cina, una persona asintomatica ha infettato altre nove persone, che si trovavano o al suo tavolo, o a tavoli distanti circa un metro dal suo, e che erano sulla linea d’aria del condizionatore – nessun altro cliente del ristorante si è ammalato
  2. Un corista di un coro dello Stato di Washington, asintomatico, nonostante il rispetto del distanziamento sociale, ha infettato 53 coristi su 60 (di cui 2 poi sono deceduti), dopo una sessione di prove durata due ore e mezza – in questo senso, è fondamentale anche l’arico temporale di permanenza in un luogo chiuso
  3. A Campobasso, dopo un funerale si è sviluppato un vero e proprio focolaio con 72 casi accertati di covid-19.

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