Oggi intervistiamo Marino Maglietta, presidente dell’ass. naz. Crescere Insieme (1993), ideatore dell’affidamento condiviso ed estensore del testo base (pdl 66 XIV Leg.) che ha portato alla legge 54/2006. Estensore, in seguito, dei principali progetti di legge di riscrittura delle norme sull’affidamento. Al momento si devono a lui la pdl 942 e l’80% del ddl 768. Abbiamo posto al dottor Maglietta alcune domande inerenti al disegno di Legge Pillon.

Innanzitutto, cominciamo con una riflessione di carattere politico. Il senatore Pillon è divenuto famoso, prim’ancora che per il disegno di legge che porta la sua firma, per alcune dichiarazioni riguardanti fantomatiche lobby gay che punterebbero al reclutamento omosessuale o quando ha affermato che la legge 194 sull’interruzione di gravidanza va ridiscussa come in Argentina; molti sono stati i detrattori e coloro che hanno ravvisato nelle sue dichiarazioni e poi nello stesso disegno di legge sul diritto di famiglia un’impostazione ideologica fortemente tradizionalista e reazionaria.

In che senso, dunque, è possibile affermare che il dibattito sul cosiddetto DDL Pillon sia viziato da posizioni eccessivamente ideologiche sia da parte dei difensori che da parte dei detrattori?

Obiettivi non ben chiari, ma sicuramente distorti, ambigui e contraddittori, pervadono il testo del ddl 735, che si è voluto allontanare dall’impianto del ddl 2049 (PD) e della pdl 1403 (m5s) della scorsa legislatura, che sono pressoché sovrapponibili tra loro e con il ddl 768 (FI) dell’attuale. Questi realizzerebbero perfettamente il contratto di governo nei punti essenziali della pariteticità dei genitori e della loro partecipazione diretta ai compiti di cura dei figli, comprensivi degli aspetti economici, nel rispetto del diritto dei figli a ricevere pariteticamente le cure di entrambi, entrambi affidatari. Il ddl 735 poteva semplicemente riprodurre quei fondamentali punti di convergenza e in pochi mesi sarebbe arrivata la riforma, con il sostegno trasversale delle principale forze politiche. Si è invece scelto di andare per altra via, secondo lo strampalato modello del “paracadute” (i 12 pernottamenti al mese “in ogni caso”), per giunta infarcendo il testo di mal gestite “novità”. Queste bizzarre improvvisazioni, giustificate con l’allineamento a paesi stranieri – per altro confondendo la prassi, che altrove è gestita da una magistratura orientata in senso più bigenitoriale rispetto alla nostra, con la legge, che invece è formulata circa allo stesso modo ovunque – hanno indotto contestazioni per alcuni aspetti del tutto giustificate dall’articolato proposto, ma anche per vari altri indotte da una diffidenza preconcetta che è giunta al punto di chiedere il ritiro di “tutti” i ddl proposti, compreso il sopracitato 768, evidentemente neppure letto.  Il tutto condito da vistose contraddizioni, come lottare per le pari opportunità ma volere la collocazione prevalente dei figli, strepitando contro il mantenimento diretto che obbliga i padri a rimboccarsi finalmente le maniche.

 

Uno dei temi più discussi del cosiddetto DDL Pillon è quello della cosiddetta “bigenitorialità perfetta”.

Cosa si intende con questa espressione?

Come sopra accennato, il ddl 735 enuncia nel titolo obiettivi perfettamente sostenibili, che tuttavia tradisce completamente nell’articolato. Il pincipale  è la “bigenitorialità perfetta” che la legge 54/2006 intende come il diritto indisponibile dei figli di poter ricevere da ciascuno dei genitori, entrambi affidatari e coinvolti entrambi nella responsabilità e nella cura dei figli, ciò che a loro serve. In sintesi, parità giuridico-formale dei genitori per garantire flessibilmente ai figli pari opportunità nel senso appena descritto, uscendo da una prassi che nella sostanza dà per intero alle madri il peso delle cure domestiche e ai padri il dovere di pagare e l’ottocentesco “diritto di visita”.

 

Secondo alcuni detrattori, la “bigenitorialità perfetta” trasformerebbe il bambino da soggetto a oggetto di diritto perché resterebbe inascoltato nelle sue preferenze e perché, quindi, sarebbe costretto a trascorrere molto tempo anche con il genitore con cui (magari) non vorrebbe stare.

Qual è la sua posizione in merito?

Questo è un classico esempio di incomprensione delle previsioni di legge. La pariteticità dei genitori in affidamento condiviso vale solo per i genitori idonei (altrimenti l’affidamento è a un genitore solo). Per cui i casi sono due: se il rifiuto è motivato (violenza, abuso ecc.) la frequentazione può andare anche a zero, mentre se il bambino semplicemente non vuole essere disturbato mentre gioca… o altro capriccioso e immotivato rifiuto è diseducativo assecondarlo. Nella famiglia unita la tesi delle “preferenze” sarebbe inconcepibile.

 

I detrattori asseriscono che il disegno di legge Pillon introdurrà il mantenimento diretto (con un’equa ripartizione delle spese in base al reddito e secondo quanto stabilisce il piano genitoriale) sulla base del tempo che il minore trascorrerà con il genitore. Di conseguenza ci sarà l’abolizione dell’assegno di mantenimento per il genitore presso il quale il minore risiede. Può chiarire, cercando di semplificare, quali sarebbero i cambiamenti rispetto alla normativa vigente?

Altro fraintendimento, molto grave e pesante, anche perché la tesi proviene da prestigiose figure considerate  leader nel diritto di famiglia e quindi viene acriticamente accolta. Il tempo non ha nulla a che vedere con la “forma” del mantenimento, incidendo solo sulla quantità dei sacrifici fatti. Dalle suddette fonti si apprende che …l’assegno di mantenimento … viene sostanzialmente soppresso con la previsione che ciascuno dei genitori provveda al mantenimento diretto nel periodo di permanenza della prole presso di sé”. Ossia da tempi uguali seguirebbe assegno zero. Chiarisco, quindi, che da sempre, anche in regime esclusivo, ai bisogni immediati del figlio provvede ovviamente il genitore presente. Ma questo non rende diretta la forma del mantenimento perchè a questo onere nel mantenimento indiretto va aggiunto un assegno per coprire le spese esterne, non legate alla convivenza, mentre in quello diretto i genitori se le dividono in modo che i costi totali per ognuno siano in proporzione delle risorse. A questo malinteso se ne aggiungono vari altri. Si afferma che il figlio avrebbe livelli di benessere differenti presso i due genitori, non avendo capito che il calcolo dei suoi bisogni si fa sulle risorse globali e non separatamente per ciascun genitore. Ossia non è che la madre povera che prende l’abbigliamento lo veste di stracci mentre il padre ricco che pensa ai mezzi di trasporto gli compra il Kawasaki: il figlio si vestirà e girerà al livello che gli permettevano le risorse della famiglia unita. Vediamolo su un caso limite. Famiglia monoreddito, padre che guadagna 3000 € mensili, figlio che ne costa 1000 nella famiglia unita. Dopo la rottura il padre dà alla madre un assegno di 500 € associato a spese per altrettanto e con altri 500 € copre le spese residue. Ma, dice e scrive qualcuna L’eliminazione dell’assegno di mantenimento dei figli provocherebbe quasi il raddoppio della povertà assoluta tra le madri”. Che equivale a dire che le madri spendono per sé il denaro destinato ai figli… E questo sarebbe femminismo…

 

Un altro nodo decisivo, contestato sopratutto dai movimenti femministi e dalle associazioni che si occupano di violenza contro le donne, è quello della mediazione familiare.

Secondo i detrattori significa limitare il diritto al divorzio, anche nei casi in cui ci sia una denuncia per maltrattamenti, in quanto si dovrebbe attendere la conclusione dei processi che, in Italia, possono durare anche un bel po’. Si tratta davvero di una limitazione al diritto al divorzio e di un estremo e disperato tentativo di difendere la famiglia cosiddetta “tradizionale”? Non si rischia di peggiorare la condizione delle donne che, stando ai dai Istat, nel 2018 in 49 mila si sono rivolte a centri antiviolenza ed in 106 sono state uccise? Qual è la sua posizione in merito?

Non so quale sia lo scopo del ddl 735, ma so che un passaggio preliminare informativo ha ridotto drasticamente il contenzioso (in Norvegia si dimezzò in tre anni). D’altra parte la donna che tema di incontrare un ex violento non ancora condannato può recarsi al centro separatamente; nessun progetto prescrive che in pre-mediazione si debba andare insieme. Quanto ai tempi, un percorso di mediazione (restando liberi di non farlo) dura mediamente 10 incontri, ossia 2,5 mesi (e se l’altro non si presenta ovviamente la procedura di divorzio va avanti ugualmente). In molti tribunali è un tempo che non basta neppure per arrivare all’udienza presidenziale, con la differenza che se la mediazione riesce è già tutto finito. Chi sostiene questa debolissima tesi dovrebbe chiedersi quanto dura una lite.

 

Sempre intorno alla questione della mediazione familiare, molti detrattori vedono una contraddizione tra l’obbligo di legge e il fatto che sarà a pagamento e anche piuttosto “salato”. Questo non rischia di penalizzare sopratutto le donne in quanto in media lavorano in numero molto inferiore rispetto agli uomini e, quando lavorano, guadagnano molto meno?

E’ una obiezione che venne mossa anche nel 2005, quando la pdl 66 prevedeva il passaggio preliminare informativo, che poi venne fatto togliere dalla commissione Lavoro perché, si disse, “disturbava l’attività degli avvocati e dei magistrati”. La motivazione venne modificata perché risultò che già allora esistevano in Italia più di 250 centri di mediazione pubblici e gratuiti (le corti d’Appello sono 30, per dare un’idea delle possibili distanze per raggiungerli). Ci vogliamo chiedere quanto costa una lite? Se non ci fossero metodi alternativi molte donne sarebbero costrette ad accordarsi rovinosamente per non potersi permettere le spese legali.

 

Chiudiamo con un’ultima domanda. Qual è il suo giudizio complessivo, sia dal punto di vista politico che giuridico, intorno al cosiddetto DDL Pillon? Va bene complessivamente nel suo impianto o andrebbe emendato in alcune sue parti?

Il problema che ha sollevato esiste sicuramente ed è meritorio averlo fatto affiorare. Tuttavia, al di là delle innumerevoli criticità, soffre del difetto – politicamente e socialmente imperdonabile – di non rispettare gli impegni del Contratto né sulla frequentazione né sul mantenimento. Ne segue che così com’è mentre fa infuriare le femministe non soddisfa neppure le legittime richieste di chi auspicava una riscrittura del condiviso che garantisse il rispetto della riforma del 2006. Indubbiamente, con una quantità di emendamenti sostanziali si potrebbe anche arrivare a trasformarlo in qualcosa di valido, ma vale la pena di praticare così tanti interventi sul suo corpo malato, quando, come ho spiegato nella prima risposta, esiste già una formulazione pronta per contestare la quale le altre forza politiche dovrebbero rimangiarsi tutto quello che hanno già reiteratamente affermato? Perché non adottarla come testo di riferimento?