Davide Marciano è il fondatore di Affari Miei, sito attivo nella divulgazione dell’educazione finanziaria e autore di diversi libri a tema investimenti. Con lui ci siamo fatti una chiacchierata riguardo al rapporto tra italiani e mercati e ai trend del momento.
Noi italiani siamo stati storicamente un popolo di grandi risparmiatori (oggi, molto meno e sotto la media europea), mentre abbiamo minore dimestichezza come investitori sui mercati. Soltanto scarsa educazione finanziaria o c’è dell’altro?
La risposta a questa domanda va cercata in un’analisi storica sulla ricchezza degli italiani che è stata creata soprattutto negli anni del boom economico.
Oggi è in corso il più grande trasferimento di ricchezza della storia a livello intergenerazionale. Miliardi di euro stanno fluendo di padre in figlio e, complice anche la demografia, si vedono sempre meno individui disporre di patrimoni anche significativi.
Il grosso di quello che vediamo oggi è stato costruito prima e tende a seguire le regole del mondo in cui il denaro è stato generato.
Negli anni del boom economico non esistevano i mercati finanziari, era tutto molto semplice: i titoli di stato davano rendimenti più elevati perché c’era forte inflazione e gli asset immobiliari crescevano con l’aumento del benessere generale.
Quei patrimoni, anche quando passano di mano, tendono a seguire le stesse logiche del mondo in cui sono nati nonostante, nel frattempo, la realtà si sia fatta più complessa.
Sfatiamo un mito, cioè degli italiani che parcheggiano il denaro in banca. Dai dati ufficiali emerge che i depositi incidono per l’11,1% delle attività contro una media UE del 12,4%. Esageriamo nel fustigare i risparmiatori?
Concordo.
Il grande problema secondo me non è la liquidità parcheggiata sui conti correnti ma il modo in cui viene gestito il resto del patrimonio.
Circa il 60% è allocato in immobili. L’accesso ai mercati finanziari è limitato a soluzioni conservative e non c’è alcuna domanda di investimenti nell’economia reale e nei segmenti più innovativi che avrebbero tanto bisogno di capitale di rischio.
Avere della liquidità, inoltre, non è sbagliato: i soldi liquidi o investiti in soluzioni a basso rischio come i conti deposito servono da riserva per i tempi difficili che, in un mondo che corre veloce come quello attuale, sono tutt’altro che rari.
Le case sono state l’asset tipico su cui le famiglie hanno investito per diversi decenni, riuscendo spesso così a contrastare l’alta inflazione e a mettere a frutto i risparmi. Da tempo le cose vanno diversamente. La demografia rema contro il mercato immobiliare, salvo eccezioni come Milano. Direbbe che questa sia una storia del passato?
È la storia del passato, un passato dal quale non riusciamo a separarci per le ragioni storiche di cui parlavo prima.
Ma è anche la storia di un presente che molti fingono di non vedere, nonostante alcuni dati lampanti.
Se guardiamo alle compravendite immobiliari, l’Agenzia delle Entrate riporta che quasi il 60% avviene senza mutuo.
Quando c’è un mutuo, viene spessissimo accompagnato da un corposo aiuto familiare: secondo il Centro Internazionale Studi Famiglia (CISF), il 70% degli acquisti effettuati da under 35 è sostenuto dalle famiglie.
Questi non sono investimenti, rappresentano più che altro un modo usato da tanti per tirare a campare.
La concentrazione nell’immobiliare evidenzia dunque che tre decenni di stagnazione economica hanno reso i redditi insufficienti per molte famiglie e, chi può, ricorre al jolly del patrimonio come forma di difesa.
Negli ultimi anni c’è stata una sostenuta ripresa degli investimenti tra le famiglie in titoli di stato italiani, che stando agli ultimi dati disponibili sono saliti a ridosso dei 400 miliardi di euro. Le emissioni retail vanno benissimo, a conferma dell’appeal dei BTp. Le alternative di pari grado di rischio risultano meno generose. Crede che ci sia un eccesso di concentrazione degli investimenti in bond sovrani?
Il grosso del patrimonio degli italiani è in mano ai Boomer e alla Generazione X che hanno vissuto direttamente o indirettamente gli anni in cui il playbook era dato dal binomio BTP & mattone.
Dal punto di vista di questi investitori, la concentrazione non ha mai rappresentato un problema.
A lungo termine, però, lo diventa. Secondo uno studio recente di Banca d’Italia, il patrimonio degli italiani tra il 2003 e il 2022 è aumentato nominalmente ma sul piano reale è rimasto pressoché identico.
Mi risulta difficile immaginare che la situazione possa migliorare in futuro se non si cambia registro.
Restando in tema di obbligazioni, le scadenze lunghe in questi mesi hanno tradito le aspettative. I prezzi sono scesi e i rendimenti risaliti. Pensa che sia tornata l’ora di comprare o consiglierebbe prudenza, magari limitandosi alle scadenze più corte?
Dico una cosa controcorrente. Secondo me le obbligazioni a lunga scadenza non dovrebbero essere disponibili per gli investitori retail.
Ci sono tantissime persone che, anni fa, hanno comprato i BTP 2072 o i 2051 e non avevano la minima preparazione ad affrontare quello che poi è accaduto a partire dal 2022.
Un bond a lunga scadenza presenta una volatilità simile a quella del mercato azionario, un rischio comunque considerevole e una remunerazione non sempre particolarmente allettante.
In un portafoglio d’investimenti diversificato può e deve sicuramente esserci un’esposizione ragionata e con una duration media ben distribuita.
Sarei molto cauto però se dovessi avventurarmi nell’acquisto di singoli bond senza una strategia complessiva.
Noi italiani non siamo molto presenti in borsa. Le azioni rappresentavano a fine 2024 solo il 29,1% delle attività finanziarie, qualcosa come 1.755 miliardi. La media UE, tuttavia, non risulta significativamente più alta, stimata al 36,6%. Da cosa deriva questa diffidenza delle famiglie europee? E come impatta sulle finanze di tutti i giorni?
Il successo spesso è figlio dell’emulazione. Oggi tutti vogliono giocare a tennis perché c’è Jannik Sinner. Quando ero ragazzo era alla moda avere il motorino con l’adesivo del numero 46 di Valentino Rossi.
Il capitalismo italiano ed europeo hanno poche storie di successo da raccontare. Non abbiamo mai avuto Mark Zuckerberg, Bill Gates, Elon Musk, Steve Jobs.
Non abbiamo nessuna azienda di enorme successo mondiale nata in un garage o tra i banchi dell’università.
Il nostro capitalismo è figlio di privatizzazioni, famiglie industriali storiche che si sono espanse – spesso con l’aiuto della politica – e di situazioni che appaiono “distanti” al cittadino medio.
Questo determina, secondo me, la generale diffidenza verso il mercato che viene percepito come distante.
Le ricadute nella vita di tutti i giorni, purtroppo, sono enormi.
Per prima cosa, i mancati investimenti delle famiglie fanno sì che le nostre imprese siano troppo poco capitalizzate per diventare grandi e svilupparsi nelle nuove frontiere tecnologiche.
Le nostre aziende, poi, non sono in grado di competere per ragioni di scala a livello mondiale perché, come ha ricordato più volte Mario Draghi, non abbiamo sviluppato un vero mercato europeo comune.
Se l’ambiente migliorasse e ispirasse maggiore fiducia, il comportamento degli investitori potrebbe cambiare. Oggi la vedo difficile e credo sia ingiusto addossare i torti solo agli investitori.
Negli ultimi tempi c’è una corsa all’oro sbalorditiva, sostenuta dagli acquisti delle banche centrali. Con un grammo ormai sopra 110 euro consiglierebbe di entrare su questo mercato?
L’oro, a mio parere, deve far sempre parte di un portafoglio d’investimenti bilanciato. Non mi avventurerei in speculazioni dettate soltanto dall’hype del momento.
Criptovalute: rendimenti stratosferici nel medio-lungo periodo, ma a fronte di una volatilità elevata e rischi non indifferenti. Quale sarebbe la loro percentuale in un portafoglio d’investimenti improntato alla prudenza? Esistono token che meritano maggiore attenzione di altri? Penso alle stablecoin, a seguito della loro regolamentazione negli USA.
Le criptovalute hanno iniziato un processo di istituzionalizzazione che le rende, di fatto, un’asset class da aggiungere in portafoglio al pari di altre. Personalmente non andrei oltre un 5%, consapevole che non è una cosa per tutti.
Sulle stablecoin vedo soprattutto un potenziale nelle transazioni più che negli investimenti veri: in molti Paesi già adesso rappresentano un’alternativa alla valuta locale che si svaluta troppo in fretta.
Ad un italiano che volesse oggi agganciare un trend sui mercati, quale investimento consiglierebbe? E tra Wall Street e borse europee ha ancora senso puntare sulla prima con valutazioni così esose e incertezze sul futuro del cambio del dollaro?
A un italiano medio consiglierei prima di tutto un investimento in formazione perché è infinitamente più facile perdere soldi sui mercati che guadagnare.
Non vedo un conflitto di scelta tra Stati Uniti ed Europa: certamente il mercato americano ha dato maggiori rendimenti in passato ed è meglio posizionato per il futuro ma, in un portafoglio bilanciato, non si può non tener conto degli Stati Uniti così come un’esposizione ragionata all’Europa ci sta tutta.
Lascerei spazio, infine, a quelli che ancora oggi vengono definiti mercati “emergenti”. Il mondo è già oggi sempre più multipolare e in futuro Cina, India e altre aree in forte ascesa saranno in grado di esprimere anche dei mercati finanziari più solidi e credibili rispetto ad oggi.
Meno di 10 milioni di italiani sono iscritti a un fondo pensione, anche se le prospettive per la previdenza pubblica non appaiono incoraggianti tra calo demografico e crescita economica stagnante. Miopia o redditi insufficienti, specie tra i lavoratori più giovani?
Direi soprattutto redditi insufficienti.
Il sistema nel suo complesso, purtroppo, non funziona. Fatto 100 il costo aziendale di un lavoratore (RAL + contributi a carico dell’impresa, tra i più alti d’Europa), circa il 30% della retribuzione viene impiegata in un sistema previdenziale a ripartizione ingiusto e difficilmente sostenibile a lungo termine, con il calo demografico in corso.
Non credo che qui occorra puntare troppo il dito contro i lavoratori. Servirebbe un cambiamento complessivo che da un lato crei le condizioni per un aumento generale dei salari e dall’altro renda più giusto il Welfare nei confronti dei giovani.
Infine, una domanda: per investire bisogna risparmiare e per risparmiare bisogna percepire un reddito più che sufficiente per vivere. Non dovremmo partire proprio dal potenziamento del reddito per vivere finanziariamente meglio, anziché sperare in investimenti dai rendimenti magici?
La democratizzazione della finanza, che è un fatto positivo perché permette oggi a chiunque di accedere ai mercati anche con pochi capitali, ha creato un enorme equivoco: ha avvicinato a questo mondo tante persone che credono, spesso anche ingenuamente, di poter generare dei ritorni sui mercati semplicemente irrealistici.
Quando si parla di educazione finanziaria si dovrebbe partire da qui. Il problema sa qual è? Che se lo dici pubblicamente, magari su un social, l’utente medio chiude il tuo contenuto e passa a quello successivo che racconta il contrario (ride).
