Le pensioni vanno tagliate. Non solo quelle future, ma anche quelle presenti. La crisi pandemica farà crollare il Pil del 10% nel 2020 e ci vorranno molti anni prima di recuperare i livelli pre Covid.

L’allarme è stato lanciato dal governatore di Bankitalia Ignazio Visco parlando agli “Stati Generali delle Pensioni”. Non si tratta di una presa di posizione di parte, ma ricalca quanto già detto prima dell’esplosione della pandemia e dall’Ocse nel 2018. Secondo Visco:

i sistemi a capitalizzazione risentiranno del calo registrato dai rendimenti finanziari (che riduce il valore del montante accumulato) e l’aumento della disoccupazione avrà l’effetto di ridurre i versamenti dei lavoratori ai fondi. Per quanto riguarda i sistemi pubblici a ripartizione, la riduzione degli occupati ridurrà le entrate contributive, e probabilmente aumenterà gli esborsi (chi ha perso il lavoro in questi mesi tenderà, se le regole glielo consentono, a pensionarsi)“.

L’allarme di Bankitalia sulle pensioni

Il problema è quindi duplice: da un lato la disoccupazione, al momento tenuta a freno dal blocco dei licenziamenti, dall’altro la spesa per le pensioni che diventerà impossibile da sostenere.

Il punto non sta tanto in quota 100, che tanto si sventola come il male di questo governo, quanto nell’impossibilità di sostenere la spesa futura che tende a crescere. Problema che non riguarda solo l’Italia, ma soprattutto il nostro Paese, oberato da un debito pubblico che sta andando fuori controllo. Il rapporto debito/Pil è stimato al 160%, cioè lo stesso livello che mise in croce la Grecia.

Sistema previdenziale vicino al collasso

Siamo prossimi al collasso, quindi. Nel 1965 il rapporto fra lavoratori e pensionati era di 5 a 1. Oggi questo rapporto è di 1 a 1. In pratica, ogni lavoratore sostiene un pensionato. E fin qui andrebbe anche bene – fanno notare gli esperti – ma il problema è che i versamenti contributivi di chi lavora, magari in forma precaria o discontinua, non sono in grado di sostenere le pensioni presenti e future.

Per ogni euro di contributi versati da un lavoratore, l’Inps ne paga di più in pensione.

Da anni si sta quindi ricorrendo al debito pubblico, all’emissione di Btp con scadenze sempre più lunghe nel tempo per sostenere le spese dello Stato. Si rimanda quindi un problema che andrebbe affrontato ora. Ma nessun governo politico lo farà mai. Eliminare quota 100, così com’è stata concepita, è solo un piccolo passo verso la sostenibilità dei conti dell’Inps.

Ma non risolve il problema. Tenere in piedi il sistema, al contrario, come vorrebbe la Lega, lo aggrava. Secondo Palazzo Koch, bisogna salvaguardare la sostenibilità e l’equità intergenerazionale del sistema pensionistico italiano e dunque è necessario intervenire subito.

Tagliare le pensioni subito, anche quelle esistenti

Quello che serve è un taglio degli assegni esistenti. Da un certo livello in su andrebbero ridotti in percentuale. Mentre per le pensioni future, il conteggio dovrebbe essere basato solo sul sistema contributivo, anche per chi ha versato nel retributivo, cioè prima del 1996. Solo così si potrà raddrizzare la barca, secondo gli esperti previdenziali.

Il buco causato dalle pensioni degli statali

Cosa comporta questo? Ci saranno sacrifici da fare, è ovvio, ma lo Stato non può più permettersi di garantire pensioni che non trovano adeguata copertura nei bilanci dei fondi gestiti dall’Inps. Come per il fondo pensioni lavoratori pubblici che ha generato negli anni un buco da 30 miliardi di euro. Una voragine che è stata abilmente fatta sparire nel 2013 con l’incorporazione dell’Inpdap e dell’Enpals nell’Inps.

Due enti di previdenza che hanno rappresentato un disastro previdenziale di portata storica e che hanno poi contribuito a dare una spallata all’Inps che i conti li aveva in ordine. Ora, però, per colpa della crisi pandemica, il sistema, già in precario equilibrio, andrà in dissesto economico se non si interverrà.

Infatti, solo pochi addetti ai lavori conoscevano il fatto che le amministrazioni centrali dello Stato non hanno mai versato i contributi all’Inpdap fin dal lontano 1996. Da allora lo Stato e gli Enti Locali hanno versato solo e sempre la quota della contribuzione a carico del lavoratore (circa il 9%) e non la quota a loro carico (circa il 25%).

Anche in questo caso, quindi, lo Stato si agevola da solo pagando meno di qualsiasi altra azienda, creando inspiegabili privilegi quando riconosce pensioni da favola ai dipendenti pubblici, a volte anche superiori dell’ultimo stipendio.