Poste, pronta IPO per 40% capitaleArriva oggi al tavolo del Consiglio dei ministri il dossier privatizzazioni, che partiranno ufficialmente con Poste Italiane, come ha annunciato ieri dal World Economic Forum di Davos il ministro dell’Economia, Fabrizio Saccomanni.

L’idea è di quotare a Piazza Affari il 40% di Poste. Secondo il governo, la storica società nata nel 1862 potrebbe essere valutata in 14-15 miliardi di euro, più dei 10 miliardi a cui venne stimata da Deutsche Bank nel 2010, quando con un’operazione di swap azionario, la Cdp cedette la sua quota al Tesoro, facendolo salire al 100% del capitale di Poste.

Grazie a questa cessione, lo stato incasserebbe, quindi, circa 5-6 miliardi di euro, quasi lo 0,4% del pil. Soldi, spiega il ministro, che serviranno a tenere sotto controllo il debito pubblico. Circa i due terzi del capitale offerto nell’IPO dovrebbe essere riservato agli investitori istituzionali, il resto sarebbe offerto al retail e una quota minima (4-5%) in azioni gratuite ai dipendenti.

In effetti, una valutazione fino a 15 miliardi di euro non sarebbe in sé esagerata, se si pensa che l’ultimo bilancio di esercizio approvato, quello relativo al 2012, vede i ricavi attestarsi a 24 miliardi di euro e l’utile a oltre un miliardo, a fronte di un indebitamento netto al 30 giugno 2013 di soli 2,2 miliardi.

Tuttavia, ci sono alcuni potenziali errori in questa privatizzazione, che rischiano di ricalcare quelli commessi negli anni Novanta. Uno riguarda la mancata separazione tra il servizio postale in sé e quello di raccolta del risparmio con BancoPosta.

I possibili errori su privatizzazione Poste

 

In sostanza, la società che si sta parzialmente vendendo sul mercato sarebbe un ibrido, di fatto avvalendosi della rete capillare sul territorio degli sportelli per rastrellare anche denaro, similmente a come fa qualsiasi banca privata, ma con la differenza di godere di un numero di sportelli più che doppio rispetto a quest’ultima, in virtù di un rapporto di monopolio con lo stato per i servizi postali (che sarà allungato probabilmente a 5 anni e contrattualizzato a tutti gli effetti, come chiede la UE).

Secondo problema: non sarebbe una vera privatizzazione, se non parziale. Lo stato resterà azionista di maggioranza con il 60% del capitale. Per quanto sopra detto, la distorsione della libera concorrenza sarebbe ancora peggiore. Una banca privata dovrebbe competere con una società, la quale non solo gode di deroghe sul numero degli sportelli e offre servizi incrociati, ma per di più appartiene allo stato, che ricopre la doppia veste di regolatore del mercato e di azionista di parte.

Terzo punto: la cessione di una quota ai dipendenti. Senz’altro lodevole il tentativo del governo di coinvolgere i 144 mila dipendenti nella privatizzazione, ma l’offerta di azioni gratuite e non a sconto, come avviene in questi casi, sembra eccessiva e rischia di trasformarsi in una pratica di grezza raccolta del consenso. Non solo. S’ipotizza che i lavoratori possano inviare un loro rappresentante al cda. Fatto salvo il diritto di votare chicchessia, in qualità di azionisti, se vi fosse un rappresentante ad hoc, sarebbe la formalizzazione dell’ingresso dei sindacati nella gestione della società. Chi mai vorrebbe investire in un’azienda al 60% in mani pubbliche e per un’altra quota gestita dai sindacati?