Dopo i spiragli di pace tra Russia e Ucraina, puntuale è arrivata la delusione già nella giornata di mercoledì. Il Cremlino ha frenato sulla tregua militare, mentre dalla Duma arriva la richiesta che gli importatori paghino in rubli non solo il gas, bensì un po’ tutte le merci vendute dalle società russe, tra cui grano, fertilizzanti, carbone, metalli, legname e naturalmente il petrolio. Poiché i paesi europei hanno segnalato di non avere alcuna intenzione di passare ai pagamenti in rubli, il rischio più concreto è che Mosca sfrutti il rifiuto come pretesto per sospendere le forniture di gas.

Il rinvio dell’ultimatum di Mosca non dovrebbe tranquillizzarci, perché è probabile che la richiesta di regolare gli scambi nella valuta russa si riaffacci tra qualche settimana.

Si tratterebbe di un’operazione estrema, dato che sarebbe benefico dell’economia russa continuare a ricevere quotidianamente circa 800 milioni di euro per le sole esportazioni di gas. Tuttavia, la guerra ha fatto saltare molte certezze, un po’ come la pandemia nel 2020. E se dopo due anni di Covid sembrava che ci fossimo messi alle spalle situazioni come il lockdown, adesso per Citi l’Italia ne rischia un altro, pur motivato dalla crisi energetica.

La Germania ha messo a punto un piano d’emergenza per affrontare un eventuale stop alle forniture di gas dalla Russia. Il ministro dell’Economia e vice-cancelliere, Robert Habeck, ha invitato cittadini e imprese tedeschi a ridurre i consumi di gas. Come ad avvertire che se non lo facessero in autonomia, sarebbero costretti a causa di un razionamento energetico federale. Qualcosa di simile potrebbe accadere in Italia, dove alcune settimane fa fu proprio il premier Mario Draghi a parlare di “razionamenti” nel caso la situazione si aggravasse.

Lockdown per ridurre costi e consumi di energia

In realtà, non serve nemmeno arrivare a una situazione estrema come quella dell’azzeramento delle importazioni di gas dalla Russia.

Già ai prezzi attuali, il costo dell’energia per le imprese italiane è diventato insostenibile. Il governo ha cercato di attutirlo con misure per circa 20 miliardi di euro (1,1% del PIL) tra l’autunno scorso e il decreto Energia di marzo. Tuttavia, sembra una goccia nel mare. Peraltro, il taglio delle accise di 25 centesimi al litro (30,5 centesimi, IVA inclusa) scadrà tra tre settimane. Rinnovarlo appare molto difficile, dati gli altissimi costi a carico del bilancio statale.

Rivolgersi al governo per chiedergli di sostenere gli aggravi al posto del settore privato è impossibile. Mettiamocelo in testa una volta per tutte. Semmai il governo potrebbe realmente attuare un piano di contingentamento dei consumi per famiglie e imprese. Sarebbe un ritorno alla tristemente nota “austerity” degli anni Settanta. I risparmi sarebbero ottenuti per il settore pubblico riducendo l’illuminazione nelle strade e spegnendo i condizionatori presso gli uffici pubblici. E per tagliare la domanda complessiva, così da tagliare le quotazioni, i paesi europei potrebbero mettersi d’accordo nel razionare anche i consumi dei privati. Un equilibrio difficile da trovare tra le esigenze quotidiane delle famiglie e quelle produttive delle imprese.

Non sarebbe un lockdown come siamo stati abituati negli ultimi due anni. La libertà di movimento delle persone non verrebbe meno, quella delle attività economiche sì. Negli anni Settanta, ai locali fu imposto di chiudere prima della mezzanotte per risparmiare luce. Qualcosa di simile potrebbe essere previsto anche oggi. E dopo le misure radicali patite a causa del Covid, non ci sarebbe più neppure sgomento. Per l’economia italiana, la certezza di scivolare nella sua seconda recessione in due anni, la quarta dal 2008.

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