C’è stato un sobbalzo dello spread BTp-Bund ieri, quando i media anticipavano in mattinata le imminenti dimissioni di Luigi Di Maio da portavoce del Movimento 5 Stelle. I mercati temono che la mossa precluda a una caduta altrettanto imminente del governo “giallo-rosso” guidato dal due volte premier Giuseppe Conte. L’unica certezza è che questa scelta avviene a 4 giorni dalle elezioni regionali in Emilia-Romagna e Calabria e che nei fatti sancisce il fallimento dei “grillini” al governo. Come mai proprio adesso e non prima e nemmeno dopo il voto di domenica prossima?

Difficile immaginare che l’assai probabile risultato catastrofico dell’M5S a Bologna e Catanzaro non gli venga addebitato.

Di Maio sarà considerato responsabile del disastro per ancora diversi mesi, quale che sia lo scenario politico nazionale. Lascia, non solo e forse non tanto per colpa sua, un movimento rinchiuso nel bunker, terrorizzato dall’idea di confrontarsi con la volontà popolare, che fino al marzo del 2018 gli aveva sempre dato ragione. Ha perso quella verginità politica sbandierata ai quattro venti come garanzia di trasparenza e pulizia, salvo ritrovarsi a 18 mesi dalla vittoria alle ultime elezioni politiche al suo secondo governo e alleato prima della Lega e dopo del Partito Democratico, con quest’ultimo ad essere stato additato proprio dai grillini come una sorta di demonio in terra e responsabile di ogni nefandezza, anche la più indescrivibile.

La metamorfosi dei 5 Stelle

Fosse stato per Di Maio, l’alleanza col PD non sarebbe stata mai siglata, ma tant’è. Il movimento di cui è stato a capo fino a ieri mattina si è trasformato rapidamente da anti-establishment in Italia ed Europa, a stampella della Commissione Ursula von der Leyen a Bruxelles e del PD redivivo a Roma. In men che non si dica, è passato dal “no agli sbarchi dei clandestini” al “processiamo Salvini per avere fermato gli sbarchi”.

Il premier che si è scelto con determinazione nella primavera di due anni fa ha condotto una politica diametralmente opposta al mandato che i pentastellati avevano ricevuto alle urne. Conte si è distinto in 20 mesi scarsi da premier per la sua accondiscendenza alla Germania di Frau Merkel e alla Francia di Macron, per il suo essere trumpiano ed europeista allo stesso tempo, a favore del risanamento fiscale e della riforma del MES, il contrario del “populismo” della base che lo ha portato a Palazzo Chigi, pur ignorandone l’esistenza.

Andare al governo non è mai facile per nessuno, specie se si eredita un’economia in eterno affanno come quella italiana. Tuttavia, non sfuggirà ai più che l’M5S ci sia andato insieme alla Lega fino al settembre scorso, ma con risultati elettorali diametralmente opposti: il Carroccio ha raddoppiato i consensi, i 5 Stelle li hanno dimezzati. Facile accusare Matteo Salvini di essere capace solo di facile propaganda. La verità è che dietro al loro fallimento senza appello si cela l’assenza di cultura politica e di programmi che vadano oltre gli slogan. Il reddito di cittadinanza da solo non può bastare a mantenere il consenso, nemmeno in quel sud così incrostato di assistenzialismo. Il problema per il movimento consiste nel non potere andare oltre simili misure apparentemente popolari, non avendo un elettorato di riferimento effettivo, inteso come categorie socio-economiche e con inclinazioni culturali omogenee.

L’assenza di cultura politica

L’M5S aveva creduto di essere riuscito a superare la dicotomia destra-sinistra, su cui la politica dell’Occidente si regge da secoli. E lo aveva supposto per via del boom di consensi di innumerevoli formazioni anti-sistema in tutta Europa, ritenendo di potersi inserire in tale scia, se non di farne da traino. Ma Di Maio & Co, la cui cultura politica rasenta quella di un moscerino, forse non si erano accorti che tutte le formazioni cosiddette “anti-establishment” o “populiste” europee, pur ambendo a smantellare gli schieramenti tradizionali, hanno un posizionamento certo.

La Pen in Francia, Farage nel Regno Unito o Salvini in Italia sono personalità di destra; magari una destra diversa da quella tradizionale, ma pur sempre destra. E i Verdi in Germania e in Scandinavia, reduci da forti successi di recente, sono di sinistra, pur in contrasto con socialisti e socialdemocratici su vari temi, tra cui proprio l’ambiente.

Lo stesso Macron, che ha spazzato via i socialisti e ammaccato considerevolmente i neo-gollisti, è di fatto un centrista, ma non inteso alla grillina, cioè come assenza di idee e ago della bilancia per governare con chicchessia, bensì nel senso di un liberale con tratti conservatori, pur non ideologico. Beppe Grillo, nel disperato tentativo di concludere in maniera dignitosa un’esperienza nata quasi per caso oltre un decennio fa, sta cercando di agganciare quel che resta dell’M5S al PD, al fine di trasformarlo in una gamba progressista con cui il centro-sinistra farebbe i conti nei prossimi anni, malgrado le percentuali verosimilmente basse.

Non si tratta di una scelta di visione, quanto di puro opportunismo: a destra non ci sono spazi, in quanto il vuoto lasciato per anni dal berlusconismo è stato appieno colmato dalla Lega e dall’ascesa di Fratelli d’Italia. Non a caso, a destra avevano guardato i grillini fino al loro approdo al governo, mentre oggi strizzano l’occhio a sinistra, tornando al loro elettorato delle origini, ma dovendosi accontentare di raccogliere le briciole che verranno loro lasciate da un già debole PD. Le dimissioni di Di Maio sanciscono la fine del movimento, almeno come esperienza politica volta a raccogliere il consenso degli esclusi e la domanda di cambiamento che continua a levarsi dal Paese reale. Seguiranno scissioni, personalismi, leader più o meno bravi su Twitter e Facebook, ma il dado è tratto: i grillini hanno fallito, sono la prova vivente che senza cultura politica non si va lontano.

Destra e sinistra esistono, eccome! Cambiano solo pelle.

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