L’Argentina rischia il nono default della sua storia. L’ultimo, pur definito “tecnico”, risale a solamente 5 anni fa ed è stato cessato nel 2016. Ormai, Buenos Aires è diventata la capitale mondiale dei debiti non onorati e non esiste tipo di governo che sia riuscito in decenni a cambiarne il destino. Dopo la vittoria per 15 punti di distacco sul presidente uscente Mauricio Macri del candidato peronista Alberto Fernandez alle elezioni primarie di due domeniche fa, i mercati sono letteralmente fuggiti dallo stato sudamericano.

Il peso ha perso il 17,5% contro il dollaro, a un cambio di poco inferiore a 55, ma che è arrivato a collassare fino a 67. Le obbligazioni di stato sono precipitate senza freni, compreso il bond a 100 anni emesso nel 2017 in dollari tra gli applausi della comunità internazionale.

Secondo Fitch, che venerdì scorso ha declassato il rating sovrano argentino da “B” a “CCC”, cioè a un passo dallo stato di default, il problema del paese sarebbe l’eccessiva dipendenza dal dollaro. E non ha torto, anzi. Dal 12 agosto scorso e fino alla giornata di ieri, la banca centrale argentina è dovuta intervenire per frenare la caduta del cambio, intaccando le riserve valutarie per 7,4 miliardi di dollari. Allo stesso tempo, il governatore Guido Sandleris, pur dichiarando che le riserve servono proprio per essere utilizzate nei momenti del bisogno, ha messo in guardia che non le impiegherà per acquistare assets finanziari a valori sganciati dai fondamentali.

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Dollaro come maledizione per Argentina

In altre parole, l’istituto segnala che intende sì frenare la caduta dei pesos, ma non a ogni costo e certamente non con l’obiettivo di fissarne i tassi di cambio contro il dollaro a livelli non sostenibili. Il fatto è che l’Argentina vive il dramma di un’economia per troppo tempo agganciata al biglietto verde tramite un cambio eccessivamente forte, come quello che portò al collasso di fine 2001, quando un peso valeva ancora un dollaro per imposizione della banca centrale, salvo crollare subito dopo il default a un rapporto di 3:1.

E fino all’insediamento di Macri alla presidenza nel dicembre 2015, il cambio veniva fissato a circa 9 contro il dollaro, nonostante al mercato nero valesse molto di meno e per evitare un disallineamento crescente con annesso pericolo di fare la fine del Venezuela, il primo provvedimento del neo-eletto capo dello stato fu di liberalizzare il cambio, che si dimezzò in poco tempo.

Il crollo allarmante è arrivato, però, nel corso del 2018, quando i mercati iniziarono a dubitare della strategia economica di Macri, percepita fin troppo graduale e tale da non risollevare le sorti di un paese colpito da quasi un quindicennio di politiche peroniste dal sapore demagogico e illiberali. Se da un lato la flessibilità del cambio garantirebbe all’Argentina di mantenere adeguate le riserve valutarie per le importazioni e di non alimentare oltremisura la sfiducia sul peso ingrossando il mercato nero, dall’altro Buenos Aires non può permettersi di far collassare troppo i pesos, non fosse che per gli oltre 275 miliardi di dollari di debiti contratti con l’estero. Erano a 160 miliardi prima dell’arrivo di Macri, per cui sono esplosi pur sotto una presidenza apparentemente rassicurante.

Gli argentini non si fidano della loro moneta, a causa dell’altissima inflazione (al 55% attuale) e per il passato anche per l’evidente sopravvalutazione del cambio, tanto che lo scorso anno hanno smobilitato 18 miliardi di dollari di risparmi e solo la scorsa settimana ben 1,2 miliardi. Se il dollaro s’impenna, i debiti in valuta americana rischiano di non poter essere più ripagati, per cui aumenta il rischio default sia per lo stato che a carico delle imprese.

Si consideri che il debito estero stava ancora al 27% nel 2015, mentre al termine dello scorso anno risultava esploso al 55%. Macri, pur avendo esordito con ottime intenzioni, si è rivelato un presidente fallimentare.

Bond Argentina in crollo verticale, rischio default s’impenna 

Peronisti a un passo dalla presidenza

Quasi certamente a ottobre, o al più tardi a novembre, lascerà il posto a Fernandez, che già parte da cattive intenzioni, come tagliare i tassi, aumentare la spesa pubblica e rinegoziare i 57 miliardi di aiuti ottenuti lo scorso anno dal Fondo Monetario Internazionale. Se l’accordo con Washington fosse stracciato, Buenos Aires non riceverebbe più i dollari stanziati e ancora parzialmente non erogati e si ritroverebbe a colmare i deficit di bilancio con emissioni di titoli in valuta locale (difficile che qualcuno glieli presti all’estero), indebitandosi a tassi stellari e facendo pressione sulla banca centrale per tenere bassi gli interessi, così da monetizzare sostanzialmente il debito. Insomma, la via più corta per il default.

L’Argentina non riesce a sfuggire alla sua maledizione, quale che sia il colore del governo in carica. Poiché nessuno si fida delle obbligazioni in pesos e i capitali domestici non abbondano rispetto alle elevate necessità di spesa pubblica, è costretta a rifinanziarsi in dollari, euro, etc. Così facendo, deve tenere d’occhio il cambio per non incorrere nell’ennesimo default, ma poiché le sue politiche fiscali e monetarie non ispirano fiducia, finisce per indisporre i mercati e per far collassare proprio i pesos, generando tensioni su tensioni.

Macri sta reagendo alla durissima e imprevista (in queste dimensioni) sconfitta con l’annuncio di un fumoso piano di sostegno a famiglie e imprese, nonché cambiando a capo del Tesoro Nicolas Dujovne con Hernan Lacunza, un maquillage inutile per recuperare consensi, oltre che sul piano pratico. Quando tra due o tre mesi al massimo saranno tornati alla presidenza i peronisti, l’Argentina farà parlare nuovamente di sé per espressioni come default, crisi finanziaria, isolamento dai mercati, crollo del cambio e protezionismo.

Non c’è speranza per questo paese, che sarebbe potuto rimanere tra i più ricchi al mondo, come lo fu fino alla Seconda Guerra Mondiale, ma che dal peronismo in poi ha imboccato la strada della demagogia al potere, non trovando l’uscita.

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