In Italia vale ancora il detto “chi è causa dei propri mali pianga sé stesso” o forse siamo stati colti come popolo da un sentimento collettivo di piagnisteo, che mira a scaricare il frutto delle proprie responsabilità addosso agli altri, specie se trattasi di governo e banche, meno popolari che mai? In questi giorni circola sulla stampa la lettera di un piccolo investitore, inviata alla redazione de Le Formiche.net e con la quale fa emergere la rabbia per avere perso tutti i risparmi, investendoli nelle azioni di Veneto Banca, sostenendo di essere stato tratto in inganno dal fondo Atlante, che solo un anno fa garantiva le ricapitalizzazioni delle due banche venete.

L’uomo si armò di coraggio, puntò sul titolo e oggi si ritrova in mano con un pugno di mosche, lamentando l’impossibilità di agire giudizialmente per ottenere il maltolto, avendo l’Italia aderito “incostituzionalmente” al bail-in europeo. (Leggi anche: Banche venete, risparmiatori finiti nella bad bank)

Il signore in questione scarica la propria rabbia sulle banche e sul sistema politico e finanziario italiano, rei di averlo indotto a investire su assets rivelatisi rischiosi. Da tali poche righe emerge la tragedia di quello che da tempo definiamo “analfabetismo finanziario”, molto diffuso e persino tra i ceti medio-alti in Italia.

Anzitutto, un investimento azionario è in sé a rischio. Dovrebbero saperlo anche le mosche, ma il nostro sembra ormai l’unico paese sulla Terra che continua a non capirlo, che reclama l’intervento dello stato a ristoro di perdite, che fanno parte proprio del rischio dell’investimento. Ancora più stucchevole appare l’insensata operazione finanziaria del signore della lettera, che ha puntato tutti i suoi risparmi su un unico titolo, vuoi per ignoranza estrema, vuoi per la malcelata furbizia di chi ha pensato di potere capitalizzare da un intervento di Atlante per realizzare laute plusvalenze dalla rivendita delle azioni di Veneto Banca.

Risparmiatori italiani troppo compiacenti verso le banche?

Scommessa persa. Ma recriminare è stupefacente in questo caso, perché non siamo di fronte alle migliaia di azionisti, che comprarono il titolo quando ancora le magagne delle due banche venete non erano state scoperte o, addirittura, dietro “pressione” degli istituti stessi, attraverso la pratica dei prestiti baciati. Il signore ha acquistato le azioni di una banca sostanzialmente fallita, quando la sua situazione disperata era già da mesi al centro delle cronache finanziarie e giudiziarie nazionali. (Leggi anche: Banche venete, storia di una truffa pagata dai contribuenti)

Bella faccia tosta, verrebbe da dire. Investire in un asset assai rischioso per sperare di rivenderlo a prezzi molto più alti di quello di acquisto, nel caso le cose volgessero al meglio, salvo lamentarsi e attaccare il “sistema”, avendo realizzato che la scommessa si è rivelata perdente. Eppure il piccolo investitore della lettera non è un caso isolato. A dirlo sono i dati.

Se non hai fiducia nelle banche, non devi investirci. Partiamo da questo assunto elementare, ma tutt’altro che scontato in Italia. Alla fine del 2007, prima che scoppiasse la crisi finanziaria mondiale, famiglie e imprese italiane avevano depositati in banca 1.549 miliardi di euro tra conti correnti (637 mld), conti deposito (67,8 mld), certificati di deposito, obbligazioni bancarie e pronti contro termine. Al maggio scorso, il monte-risparmi depositati in banca risultava salito a 1.714 miliardi, in crescita del 10,7% nel decennio.

Lamentarsi delle banche e continuarci a investire

I depositi veri e propri della clientela, al netto degli investimenti come le obbligazioni e i pct, sono saliti, poi, di ben 92 miliardi di euro (+7%) dal novembre 2015, mese in cui esplose la crisi in borsa delle banche italiane, accendendo i riflettori sulla fragilità del nostro sistema del credito, a seguito del salvataggio in extremis di quattro istituti per mano pubblica (Banca Etruria, Banca Marche, Carife e CariChieti).

(Leggi anche: Crisi banche, tutti gli errori del tragico Padoan ai danni dei contribuenti)

Come fanno gli italiani a lamentarsi di quanto truffaldine sarebbero le banche, salvo aumentarvi i risparmi in esse investiti? Vero, la stragrande maggioranza della raccolta bancaria è data da conti correnti e deposito di importo cadauno inferiore ai 100.000 euro, ovvero garantiti totalmente per legge. Vero è anche che per necessità pratica risulta oggi quasi impossibile sfuggire a un conto corrente per l’accredito dello stipendio o la pensione, nonché per effettuare pagamenti altrimenti impossibili in contanti (si vedano le norme anti-riciclaggio). Vero è, infine, che di valide alternative non se ne vedono: la borsa italiana è arrivata a perdere il 60% con la crisi e ancora oggi segna un pesante -50% rispetto al 2007, mentre il mercato immobiliare non si è risollevato, con i relativi prezzi in caduta di un quarto nell’ultimo decennio.

Nemmeno rifugiandosi nell’oro si è scevri dalle perdite, almeno non nel breve e medio termine, se è vero che le quotazioni del metallo sono crollate di oltre un terzo dall’apice toccato nel settembre 2011, solo parzialmente compensate dal +15% messo a segno dal dollaro contro l’euro nello stesso periodo di tempo.

Mancanza di alternative o fatalismo?

Ma siamo sicuri che si tratti solo di questo? In condizioni di mercato “normali”, i risparmiatori italiani investirebbero altrimenti i loro denari? Il trend dei depositi bancari ci suggerisce che la fiducia nel sistema del credito nazionale sarebbe rimasta intaccata negli anni, nonostante le tensioni. Dunque, o gli italiani non temono realmente per i loro risparmi, oppure si mostrano fatalisti, magari confidando che in caso di difficoltà possa intervenire lo stato in loro favore.

La lettera del signore a Le Formiche è esaustiva di una certa incapacità di molti piccoli investitori di resistere alla tentazione di qualche facile guadagno, senza averne gli strumenti e il profilo di rischio adeguato per evitare di restare spennati e in mezzo a una strada.

Le banche saranno anche poco trasparenti, alcuni loro dirigenti meriterebbero di far visita alle patrie galere, ma contro il cretinismo non esiste mai un rimedio efficace.

Forse è stato rapido il passaggio dall’era dei “BoT people” a quella della finanza speculativa. Molti di quanti per decenni hanno investito i loro risparmi in titoli di stato e libretti postali si sono convinti erroneamente che avrebbero potuto mantenere gli stessi livelli di sicurezza, puntando su assets diversi e spesso più remunerativi. Si sono improvvisati obbligazionisti subordinati e azionisti di banche opache, imitando i detentori dei grandi capitali, nella speranza che questi avrebbero indicato la giusta via finanziaria, ma non cogliendo una immensa differenza: un grosso fondo può anche permettersi di perdere tutto l’investimento effettuato su un titolo, non un piccolo investitore, specie se è stato così fesso da averci puntato tutto. (Leggi anche: Banche venete, salvataggio all’italiana incentiva azzardo morale)