Il dato di ottobre sul debito pubblico ci dice poco sull’onere a carico dei cittadini-contribuenti, rappresentato più appropriatamente dalla spesa per interessi. Lo stock è salito di 50,7 miliardi al nuovo record di 3.131,7 miliardi di euro. Hanno pesato i +31,8 miliardi di disponibilità liquide del Tesoro (a 77,2 miliardi), il fabbisogno mensile delle Amministrazioni pubbliche per 18,8 miliardi e l’effetto combinato tra rivalutazione dei titoli di stato indicizzati, variazioni del tasso di cambio e scarti di emissione per altri 0,1 miliardi.
Spesa per interessi sul debito pubblico dato che conta
Depurando il dato complessivo dalle scorte di liquidità accumulate dal Tesoro, otteniamo un aumento tendenziale di 115,51 miliardi, pari a un ritmo medio mensile di 9,63 miliardi.
A settembre, le detenzioni di titoli di stato tra le famiglie risultano in calo di 4,5 miliardi, mentre gli stranieri crescono di appena 434 milioni. Come sappiamo, gli acquisti delle prime verosimilmente risaliranno grazie all’emissione del BTp Valore 2032, che due mesi fa attirò ordini per 16,57 miliardi.
Dicevamo che il debito pubblico in sé poco ci dice del suo impatto sul bilancio dello stato, ergo sulle tasche di tutti noi contribuenti. Questo si esprime attraverso la spesa per interessi, che a sua volta riflette l’andamento dei costi di emissione. Nei primi 11 mesi di quest’anno, sono scesi al 2,79% medio dal 3,41% del 2024 e dall’apice del 3,76% raggiunto nel 2023. Resta il fatto che per onorare il debito spendevamo 64 miliardi nel 2022, mentre quest’anno dovremmo superare i 100 miliardi. In rapporto al Pil, siamo saliti dal 3,2% al 3,9%.
Spread ai minimi non salvezza definitiva
La buona notizia è che questo rapporto dovrebbe stabilizzarsi per il medio periodo.
Dunque, non assorbirà ulteriori risorse pubbliche. La cattiva è che le cose si sono messe peggio rispetto agli anni precedenti al boom dell’inflazione. In effetti, per quanto stiano scendendo anche grazie allo spread ai minimi dal 2009, i costi di emissione restano molto più alti che in passato. Pensate che prima della pandemia non arrivavano all’1% e nel 2021 toccavano il minimo storico dello 0,1%.
Questo confronto ci prospetta pressioni sui conti dello stato anche in futuro. Stiamo rinnovando in questa fase molte scadenze emesse con rendimenti molto bassi, spesso persino negativi. E le stiamo rifinanziando con scadenze più onerose. Oltretutto paghiamo la spesa per interessi su un debito pubblico che tende ad aumentare in valore assoluto, seppure stabilizzandosi in rapporto al Pil. Se in futuro i rendimenti tornassero a salire e/o accadesse qualcosa di negativo alla crescita del Pil nominale, il costo esploderebbe e sottrarrebbe risorse ad altre voci del bilancio come scuola, sanità, assistenza, pensioni, infrastrutture, ecc.
Rischi da volatilità dei prezzi
Non a caso l’attenzione del mercato si sta spostando sui rischi insiti negli investimenti in titoli di stato a lunga scadenza. I rendimenti lunghi offrono di più, ma allo stesso tempo espongono il possessore ad una maggiore volatilità dei prezzi. Se questa consapevolezza si diffondesse, lo stato dovrebbe concentrarsi sulle scadenze più brevi. A quel punto, il successo dei collocamenti retail diverrebbe ancora più decisivo per calmierare i rendimenti.
Particolare importanza rivestirebbero gli indicizzati come il BTp Italia 2030 di cui abbiamo scritto oggi.
Quest’anno, l’avanzo primario è atteso a quasi l’1% del Pil. Nessun altro stato del G7 sta riuscendo a chiudere con un surplus fiscale al netto della spesa per interessi. Neppure la Germania, sempre attenta ai conti pubblici. Grazie a questi risultati le agenzie di rating ci stanno premiando e i mercati reclamano rendimenti extra mai così bassi negli ultimi 16 anni. Il problema è che non possiamo uscire dal seminario per un attimo, a causa dell’immenso debito pubblico accumulato nei decenni e che a dicembre dovrebbe chiudere in area 3.080/90 miliardi.
giuseppe.timpone@investireoggi.it