Quando la politica non è in grado di assumersi le sue responsabilità, ecco spuntare la ricorrente polemica sulla presunta “manina” che avrebbe inserito misure indesiderate negli atti deliberati dal Consiglio dei ministri. E’ accaduto nei giorni scorsi sugli affitti brevi. La tassazione era stata annunciata in aumento dal 21% al 26% su tutti gli immobili. La levata di scudi all’interno della maggioranza ha indotto il governo al passo indietro: sale al 26% solo sugli immobili offerti in locazione tramite piattaforme online. Una correzione parziale, che non ha smentito la cultura latente ostile ai diritti di proprietà. Diffusa in politica e nella magistratura, ritiene che la libera iniziativa e la proprietà privata siano assoggettate a un bene più grande.
E quasi sempre si scomoda la Costituzione nel giustificare tale asservimento.
Affitti brevi, diritti di proprietà limitati
Gli affitti brevi racchiudono tutto ciò che in Italia si detesta per ideologia o avversione sociale. E’ una storia di successo, come dimostra l’evoluzione del fenomeno nell’ultimo decennio. Centinaia di migliaia di famiglie, proprietarie di seconde case, mettono a reddito questi immobili o per sbarcare il lunario (spesso, anche solo per non rimetterci con le imposte) o per avere una entrata nel corso dell’anno.
E già questo spiace a parte dell’opinione pubblica, che vede in questo esercizio dei diritti di proprietà una forma di rendita parassitaria inaccettabile. A parte che non lo è – gli affitti brevi richiedono organizzazione e sforzi di tipo imprenditoriale – eventualmente quale sarebbe il problema? La risposta di accademici, politici e i sempre attenti ai bisogni altrui è lapidaria: gli affitti brevi sottraggono immobili al mercato delle locazioni a lungo termine.
Ci sarebbe il rischio che i canoni diventino sempre più insostenibili per famiglie, lavoratori e studenti.
Seconde case sfitte
Vero? Non proprio. Nella sola città di Milano sono stimati 100.000 appartamenti vuoti. Se le case in affitto non bastano, non è certo per gli affitti brevi. I proprietari hanno semplicemente deciso di esercitare i loro diritti di proprietà in altro modo: astenendosi dal contrarre. La ragione principale risiede nel rischio di trovarsi inermi dinnanzi a inquilini morosi. Lo stato protegge i cittadini più deboli (ammesso che lo siano per automatismo i locatari) sulle spalle di altri cittadini, anziché eventualmente potenziare la rete di assistenza sociale.
Gli affitti brevi diventano la via di fuga per minimizzare tale rischio e cercare di guadagnare qualcosa. Non può piacere a chi crede che i cittadini non debbano soggiacere alla logica del profitto, dovendosi adeguare ai desiderata di politici e benpensanti. L’esercizio dei diritti di proprietà si trasforma in un ostacolo per il raggiungimento di obiettivi improntati all’egualitarismo. I locatori riacquisiscono in tal modo quel potere negoziale che sembrava fino a pochi anni fa essere andato perduto per effetto di una giurisprudenza sempre e comunque favorevole alle controparti.
Lobbismo dietro alla stangata
Infine, gli affitti brevi sono una sfida alla lobby degli albergatori.
Questi hanno le loro sacrosante ragioni nel pretendere che non ci sia un trattamento di riguardo verso i loro concorrenti. La loro categoria è gravata da incombenze fiscali e burocratiche tali da elevare il costo del servizio praticato ai clienti, molti dei quali ormai preferiscono l’opzione delle case vacanze. A parte il fatto che di recente sono state introdotte normative sulla sicurezza a carico di queste ultime, c’è da spiegare un fatto ignoto persino ai commentatori economici. La cedolare secca del 21% sugli affitti brevi non si applica ai profitti, bensì ai ricavi.
I proprietari non possono detrarre alcun costo. Nel caso di ricorso alle piattaforme online come Airbnb, le commissioni da pagare sono anche superiori al 20%. Questo significa che su 100 euro di ricavi non resta più di 60 euro, al lordo sempre dei costi per offrire il servizio: utenze, pulizie, cambio delle lenzuola, suppellettili, ecc. Con la legge di Bilancio presentata al Parlamento, proprio coloro che si rivolgeranno ai colossi web per mettere in vetrina il proprio immobile, saranno gravati da una maggiore aliquota del 26%. Lo stato ha deciso per l’ennesima volta le modalità di esercizio dei diritti di proprietà. Il passaparola sì, l’annuncio in rete no.
Diritti di proprietà, decide lo stato
Qual è la ratio sottesa a questa previsione? Nessuna che abbia apparentemente una logica. A meno che non vi sia dietro la volontà di punire chi si sospetta ricorra agli affitti brevi in modo professionale. Perché l’intento vero di tutte queste limitazioni di cui si discute da anni resta lo stesso: impedire che molti italiani facciano impresa grazie all’esercizio dei diritti di proprietà sugli immobili di famiglia. L’Italia è una nazione che non ammette il successo. Soprattutto, se lo si coltiva sotto il naso dei vicini.
giuseppe.timpone@investireoggi.it

