Il superamento della legge Fornero, con una nuova riforma delle pensioni, è il tema che maggiormente interessa una vasta platea di lavoratori.
Perché c’è voglia di cambiamento? Perché è diventato sempre più difficile andare in pensione: le regole sono sempre più rigide e probabilmente non tengono conto di fattori oggettivi come il cambiamento del mondo del lavoro registrato negli ultimi anni, o delle attuali problematiche di natura previdenziale.
In parole semplici, la legge Fornero è ormai superata nei tempi, non necessariamente perché venga cancellata da una nuova riforma, ma perché non risponde più alle esigenze odierne. La riforma del governo Monti poteva avere un senso nel passato e, forse, ha anche garantito benefici in termini di sostenibilità del sistema.
Ma oggi, di fatto, produce più danni che vantaggi per i contribuenti.
Ecco perché l’addio alla riforma Fornero, con nuove misure pensionistiche, è non solo auspicabile ma necessario. Il governo ci sta pensando, ma le soluzioni allo studio rischiano di non essere quelle giuste.
Pensioni, addio alla riforma Fornero: le soluzioni ideali e quelle del governo a confronto
Si deve partire dalle anomalie del mercato del lavoro attuale. In realtà, non si tratta di una novità recente: da anni i lavoratori faticano a costruire carriere lunghe, stabili e ben retribuite come accadeva in passato.
Il governo sta tentando di varare misure che consentano a molti contribuenti di anticipare il pensionamento. Tuttavia, sembrano provvedimenti che non guardano con realismo alla situazione concreta dei lavoratori.
Il piano del governo sembra insufficiente
Tra le ipotesi allo studio c’è la Quota 41 flessibile, che richiederebbe almeno 62 anni di età e 41 anni di versamenti, con penalizzazioni del 2% per ogni anno di anticipo rispetto ai 67 anni.
La penalizzazione, però, si applicherebbe solo a chi ha un ISEE superiore ai 35.000 euro.
Un’altra ipotesi è la cosiddetta Quota 89, che consentirebbe l’uscita con almeno 64 anni di età e 25 anni di contributi, ma soltanto se si raggiunge una pensione pari ad almeno 3 volte l’assegno sociale.
La prima misura pone il problema di una carriera contributiva molto lunga: 41 anni di versamenti sono difficili da raggiungere nell’era del precariato. La seconda, invece, richiede un importo minimo che mal si concilia con la realtà di salari bassi e carriere discontinue. Stipendi ridotti generano contributi ridotti e, nel sistema contributivo, ciò si traduce in una pensione molto bassa. Risultato: per molti diventa quasi impossibile arrivare a una pensione di oltre 1.600 euro al mese, pari a 3 volte l’assegno sociale.
Addio alla riforma Fornero, ecco cosa servirebbe davvero
Le misure allo studio rischiano di non bastare. Per dire davvero addio alla riforma Fornero occorrerebbero scelte diverse.
La pensione flessibile dovrebbe partire dai 62 o 63 anni, con almeno 20 anni di contributi, ma senza vincoli legati all’importo della pensione maturata.
La Quota 89, che consente di integrare con rendite da fondi pensione o con il TFR per raggiungere la soglia delle 3 volte l’assegno sociale, rischia di essere inefficace. Chi ha stipendi bassi, infatti, difficilmente ha un fondo pensione robusto.
E, con carriere precarie e discontinue, è raro disporre di un TFR abbastanza elevato da garantire un’integrazione adeguata.
Il vero superamento della riforma Fornero dovrebbe puntare su pensioni flessibili, libere da vincoli e lasciate alla scelta del contribuente. Un ritorno, in un certo senso, a meccanismi simili alla vecchia Quota 96, che permetteva il pensionamento a partire dai 60 anni con almeno 35 anni di contributi, combinando età e anzianità.