La notizia sui mercati di questi giorni è stato il declassamento del rating francese ad opera di Fitch da AA- ad A+. Un annuncio scontato dopo la caduta del governo Bayrou e l’assenza di stabilità politica a Parigi. Condizione basilare per poter gestire al meglio i conti pubblici, come ha scritto nel comunicato la stessa agenzia. Il giudizio sul rating italiano verrà aggiornato venerdì 19. Ci sono buone probabilità che vi sia una promozione da BBB a BBB+. Un allineamento a S&P, che nella scorsa primavera ci aveva promossi di un gradino.
Calendario delle agenzie
Sempre S&P si esprimerà nuovamente il 10 ottobre sul rating italiano, ma l’ipotesi di una nuova promozione sembra poco probabile. Al meglio, ci sarebbe un miglioramento dell’outlook da “stabile” a “positivo”.
Più probabile che anche questi venga confermato. Infine, restando alle grandi agenzie internazionali, sarà il turno di Moody’s per il 21 novembre. Di recente è stato migliorato l’outlook, mentre il giudizio resta infimo: Baa3, appena un gradino sopra il livello “spazzatura”.
Sarebbe il minimo sindacale che proprio Moody’s si schiodasse da tale livello, promuovendo il rating italiano a Baa2. Allontanarci di un gradino dall’area più rischiosa, attirerebbe ulteriori capitali e ci toglierebbe di dosso lo stigma di emittente sull’orlo del default. Ma non è una questione che attiene solamente lo stato o di orgoglio nazionale. Le implicazioni sono più che concrete per l’intero sistema Italia, compreso il settore privato.
Rendimenti sovrani e tassi sui prestiti legati
Più basso il rating italiano, più alti i rendimenti sovrani.
Il costo per gli interessi sul debito sale e si ripercuote negativamente sui conti pubblici. Ciò obbliga i governi a tenere alta la pressione fiscale su imprese e famiglie e riduce i margini per sostenere gli investimenti pubblici laddove servono. Pensate alla sanità. Discutiamo da anni su come potenziarla, ma la realtà è che il 4% del Pil in spesa per interessi comprime questa voce del bilancio. Il risultato è che i bilanci familiari vengono gravati dal necessario ricorso alla sanità privata in un numero crescente di casi.
A parte ciò, il problema del basso rating italiano è più diretto di quanto pensiamo. I rendimenti sovrani fungono da “benchmark” per la struttura dei tassi domestici. Per capirci, il costo di un mutuo o prestito risente dei livelli di rendimento dei BTp. Se questi sono alti, altrettanto restrittive saranno le condizioni per il credito privato. E poiché negli altri stati europei i rating sono più alti, i tassi di cui godono famiglie e imprese a noi concorrenti all’estero risultano minori. Ed ecco che un’impresa non solo tedesca, bensì anche (finora) francese o spagnola può ri-finanziarsi a costi inferiori. Una perdita di competitività per il sistema Italia. Investire a una nostra impresa costa di più che altrove, ripercuotendosi sui prezzi e frenando l’innovazione.
Rating italiano basso per gli stessi mercati
Che l’Italia sia stata bistrattata più del dovuto, sembra ormai quasi pacifico. Il rating italiano è stato scaraventato negli abissi in pochi anni. Eravamo ai livelli attuali francesi fino al 2011. Poi, il diluvio. Le promozioni in vista e auspicabili sarebbero anche la presa d’atto che già sui mercati il rischio sovrano sia considerato non troppo dissimile da quello degli altri stati.
Frutto anche, se non soprattutto, delle politiche e degli strumenti di cui si è dotata nel tempo la Banca Centrale Europea (BCE). Tra questi il TPI, lo “scudo anti-spread” varato nel 2022, finora mai richiesto da nessuno e che adesso, però, potrebbe tornare utile alla Francia.
giuseppe.timpone@investireoggi.it

