Nel dibattito sulla nuova riforma delle pensioni, le soluzioni finora discusse appaiono poco in linea con le reali esigenze del sistema previdenziale italiano e con le correzioni che i legislatori dovrebbero introdurre.
Mandare in pensione prima i cittadini — usando il TFR come leva finanziaria, ad esempio — sembra una forzatura, così come appare poco efficace consentire pensionamenti anticipati a 62 anni con tagli modesti sull’assegno, ma solo per chi può vantare 41 anni di contributi.
E chi ha pochi anni di versamenti? O chi è disoccupato da tempo e possiede un TFR troppo basso per sostenere un’uscita anticipata? Sono domande che molti lettori ci pongono quotidianamente, spesso accompagnate da proposte alternative per migliorare il sistema pensionistico.
Alcune di queste idee sono impraticabili, come il ritorno alle politiche previdenziali pre-Fornero. Altre, invece, sembrano più realistiche.
Tra queste c’è la proposta del part-time pensione, ispirata a modelli già in uso in altri Paesi europei, in particolare nel sistema svedese. Ma di cosa si tratta esattamente e come potrebbe funzionare in Italia?
Esiste una pensione part time da prendere mentre si lavora a orario ridotto?
Di pensione part time si parlò già alcuni anni fa, in prossimità della Legge di Bilancio 2024, prendendo spunto dal cosiddetto modello svedese.
Sul finire della carriera lavorativa, il problema principale per molti contribuenti è l’impossibilità di andare in pensione subito e la necessità di continuare a lavorare ancora per diversi anni, spesso in condizioni fisiche difficili o in mestieri pesanti e logoranti.
Poiché anticipare la pensione costa troppo alle casse dello Stato, si pensò allora a un’alternativa: permettere ai lavoratori di ridurre l’orario di lavoro e, contemporaneamente, percepire una parte della pensione.
L’idea, mutuata dal sistema svedese, prevede dunque di combinare lavoro e pensione: si resta occupati, ma a tempo parziale, e si riceve una pensione ridotta per compensare la perdita di reddito.
Naturalmente, adattare questo modello all’Italia non sarebbe semplice.
Tra Svezia e Italia ci sono differenze profonde in termini di mercato del lavoro, fiscalità e sostenibilità previdenziale.
L’unico punto in comune resta il calcolo contributivo della pensione, ma per il resto il divario è notevole.
Ecco come funzionerebbe orario ridotto e pensione ridotta
Le statistiche e gli studi demografici mostrano un trend chiaro: in Italia ci sono sempre più pensionati e sempre meno lavoratori attivi.
Questo squilibrio fa temere che, tra qualche anno, il numero dei lavoratori non sarà sufficiente a sostenere il sistema.
E allora, perché non pensare a una soluzione “ibrida”?
Permettere ai lavoratori di restare in servizio a orario ridotto, alleggerendo così il carico di lavoro, ma garantendo loro una integrazione del reddito con una pensione parziale.
In Svezia, ad esempio, l’età pensionabile è flessibile a partire dai 64 anni. Da quell’età un lavoratore può ridurre volontariamente l’orario di lavoro e ricevere subito una quota della pensione a compensazione.
In Italia, una possibile applicazione potrebbe consentire a chi si trova a 24 mesi dal pensionamento di passare a part time al 50%, percependo una pensione per il restante 50%.
Questo schema avrebbe vantaggi multipli:
- il lavoratore anziano potrebbe gradualmente uscire dal mondo del lavoro;
- il datore di lavoro potrebbe inserire nuove risorse giovani, affiancate da un dipendente esperto che funge da tutor;
- lo Stato garantirebbe sgravi contributivi per le nuove assunzioni;
- i contributi previdenziali del lavoratore senior continuerebbero a essere versati interamente, come se fosse a tempo pieno.
Una misura del genere sarebbe socialmente utile, sostenibile nel medio periodo e soprattutto equilibrata tra esigenze economiche e benessere dei lavoratori.