Ci risiamo! La lira turca è ancora una volta nella bufera. Ieri, ha chiuso in calo del 4,4% contro il dollaro, ma era arrivata a perdere fino al 5,1%, replicando la stessa performance di venerdì scorso, quando si era portata a un rapporto di 5,76 contro il biglietto verde, segnalando la maggiore debolezza da ottobre. E anche stamattina le cose si stanno mettendo male. La lira cede un altro 1,3-4%, attestandosi nei pressi di 5,60. Che cosa succede stavolta? C’entra sempre il presidente Recep Tayyip Erdogan, il quale sta cercando di mantenere il controllo di città come Ankara e Istanbul, che il suo Akp rischia di perdere per la prima volta dopo 25 anni alle elezioni amministrative di domenica.

La scorsa settimana, la banca americana JP Morgan aveva invitato i suoi clienti a disinvestire le posizioni in lire turche, facendo scattare l’allarme nel governo, il quale si è sentito minacciato alla vigilia di un importante appuntamento elettorale.

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All’improvviso, nessun investitore straniero mercoledì ha avuto la possibilità di accedere alle lire turche. Nessuna banca locale le vendeva e i tassi “swap” overnight, quelli che si applicano sui prestiti in valuta locale per le poche ore che trascorrono dalla chiusura degli istituti alla successiva riapertura, sono letteralmente esplosi dal 24% al 1.338%, il segno di un prosciugamento totale di questo mercato. Come mai? All’inizio ufficiosamente, dopodiché lo ha ammesso lo stesso il governo, si è sparsa la voce che Erdogan abbia ordinato alle banche turche di non vendere “nemmeno una singola lira” agli investitori stranieri, così da impedire loro di scommettere contro il cambio.

Quando i tassi sono impazziti, il governo ha ammesso il blocco delle operazioni, ma ha rassicurato che sarà “temporaneo”, anche se ha avvertito che pure in futuro lo applicherà, nel caso in cui dovesse ritenere necessario preservare la lira turca.

In sostanza, a quanti abbiano scommesso al ribasso contro la valuta di Ankara è stato negato l’accesso ad essa, con la conseguenza che le posizioni non hanno potuto essere chiuse. A questo punto, chi ha potuto ha disinvestito gli assets in valuta locale, come azioni e obbligazioni, così da accedere alle lire. Il risultato è stato l’impennata dei rendimenti sovrani e il crollo della Borsa di Istanbul, il cui indice principale ha perso il 5,7% in una sola giornata.

L’attacco continuo di Erdogan contro i mercati

Ieri, il tasso swap overnight sembrava essersi sostanzialmente normalizzato, crollando al 35%, un livello più alto di martedì, ma che lascerebbe intendere che la liquidità sul mercato sarebbe stata nuovamente fornita dalle banche. In altre parole, Erdogan avrebbe lanciato un avvertimento alla finanza straniera e, in effetti, nel corso dei comizi che sta tenendo in questi giorni è tornato ad attaccare l’America, in particolare, che minaccerebbe la lira turca, invocando per l’ennesima volta in pubblico il taglio dei tassi per far scendere l’inflazione, sostenendo – contrariamente a quanto dimostrino le teorie economiche principali – che questa sarebbe trainata proprio dagli alti interessi e aggiungendo che “anch’io sono un economista”.

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Se l’obiettivo del presidente fosse stato di evitare tensioni finanziarie alla vigilia del voto, non può dirsi centrato. Anzi, quanto è accaduto rischia di provocare ripercussioni di lungo periodo, qualora gli investitori si chiedessero se fosse accorto puntare i capitali su un mercato, in cui non vi sarebbe la sicurezza di potere liquidare le posizioni prontamente. E la polemica nitida riesplosa tra Erdogan e la finanza straniera non sprona certo all’ottimismo. JP Morgan risulterebbe sotto indagine delle autorità di Ankara con le accuse di “manipolazione del mercato”.

A dire il vero, il “sell-off” ai danni della lira potrebbe non essere stato scatenato nemmeno dal report negativo della banca USA, quanto dai dati raggelanti provenienti dalla stessa banca centrale turca, le cui riserve valutarie risultano diminuite di 9,9 miliardi di dollari nelle prime 3 settimane di marzo, scendendo a 24,9 miliardi.

In sostanza, l’istituto ha “bruciato” valuta pesante al ritmo di quasi il 10% a settimana, sebbene il governatore Murat Cetinkaya abbia sottolineato come la settimana scorsa, le riserve sarebbero aumentate di 2,4 miliardi a 28,6 miliardi. Nel complesso, il dato di marzo confermerebbe i sospetti degli investitori, per cui la banca centrale sarebbe stata obbligata a intervenire per rafforzare la lira o impedirne l’indebolimento, alla vigilia delle amministrative. Sarebbe un’interferenza bella e buona della politica negli affari dell’istituto, la cui indipendenza da tempo è abbastanza flebile. I turchi stessi non si fidano della lira, se è vero che al 22 marzo risultavano in possesso di posizioni in valuta estera per 179,3 miliardi di dollari.

Il boom dei rendimenti sovrani

I rendimenti a 10 anni sono lievitati di circa 400 punti base (4%) a marzo, a quota 18,43%, ai massimi dall’ottobre scorso. I biennali sono saliti al 21,08% (+287 bp) e ai massimi da novembre, facendo svanire il miglioramento esibito negli ultimi mesi, legato essenzialmente al recupero di una minima fiducia tra gli investitori sulla lotta all’inflazione esibita dal governatore, il quale ha alzato i tassi al 24%. E la crescita tendenziale dei prezzi è così scesa dal 25,2% di ottobre al 19,7% di febbraio.

Il taglio dei tassi, se arrivasse troppo presto e/o in misura superiore alle attese, finirebbe per indisporre ulteriormente il mercato, così com’era avvenuto nell’estate scorsa, quando la lira era arrivata a perdere quasi la metà del suo valore contro il dollaro da inizio anno, a causa dei timori del mercato per un’inflazione incontrollata e una banca centrale impossibilitata dal governo a intervenire come dovrebbe, data l’ostentata ostilità di Erdogan contro la stretta monetaria.

Non sembra lo scenario migliore per investire sull’obbligazionario turco, per quanto il ministro dell’Economia e genero del presidente, Berat Albayrak, abbia annunciato il varo di un piano di riforme economiche dopo le elezioni, pur non entrando nel merito.

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Il pollice verso della finanza

Per quanto abbiamo notato negli anni recenti, Ankara si mostra più ragionevole sulla gestione della politica economica solo quando è sotto pressione dei mercati. Erdogan, che pure tuona tutti i giorni contro l’Occidente e la sua finanza, non sembra disposto ad isolare la Turchia dal resto del mondo, anche perché il suo successo economico lo si deve proprio alla capacità di attrarre capitali esteri per finanziare il boom del quindicennio passato. Permangono gravi squilibri macro, solo da qualche mese apparentemente contrastati con efficacia per mezzo di un rallentamento economico ai danni delle importazioni e dovuto proprio al crollo della lira e alla conseguente stretta sui tassi. L’alta inflazione, alimentata da una lira in costante deprezzamento sui mercati valutari, provoca elevati rendimenti sovrani, i quali non rispecchiano in sé un rischio default significativo – sebbene i cds a 5 anni siano esplosi nell’ultimo mese del 50% a un massimo di 458,5 punti, a fronte di un rapporto debito/pil sotto il 30% – quanto le incertezze relative ai tassi di cambio, che aggravano le prospettive di stato e settore privato, esposti pesantemente in valute estere pesanti e con necessità di rifinanziamento a breve molto sostenute.

Probabile che dopo domenica, torni un po’ di sereno sui mercati, con le banche a fornire tutte le lire richieste e i tassi overnight a normalizzarsi ulteriormente. Resta il danno reputazionale nel lungo periodo e non possiamo nemmeno escludere ulteriori tensioni politiche, qualora Erdogan dovesse perdere la guida delle principali città turche. A quel punto, la sua “crociata” contro la finanza internazionale s’intensificherebbe, mentre la pressione su Cetinkaya si farebbe fortissima, affinché tagli i tassi il prima e di quanti più punti possibile. E una lira che continua a indebolirsi non depone in favore di un “outlook” positivo sull’inflazione, né sui rendimenti dei bond.

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