La Russia è intenzionata a pagare oggi le cedole dei bond in dollari in scadenza il 16 settembre 2023 e 16 settembre 2043 in valuta locale, cioè in rubli. Nei giorni scorsi, il ministro delle Finanze aveva paventato anche un’offerta iniziale in yuan. Con ogni probabilità, le banche che hanno in custodia i titoli e che si occupano di effettuare i pagamenti ai possessori rifiuteranno l’accredito in una valuta diversa dai dollari. A quel punto, inizierebbe il conteggio dei 30 giorni (periodo di grazia), trascorsi infruttuosamente i quali sarebbe ufficialmente dichiarato il default.

Fitch fa sapere che nel caso in cui ciò accadesse i due bond russi oggetto dei mancati pagamenti avrebbero rating D, gli altri in valuta estera RD, cioè Restricted Default.

L’ultima volta che la Russia andò in default fu nel 1998, quando la banca centrale svalutò il rublo e smise di pagare i bond in valuta locale, mentre chiese una moratoria su quelli in valuta straniera. Stavolta, oggetto del crac sarebbero proprio i secondi. Si tratterebbe a ben vedere di default “tecnico”, nel senso che Mosca non avrebbe alcuna difficoltà a onorare le scadenze se non fosse che le sue riserve valutarie siano state “congelate” dall’Occidente con il terzo pacchetto di sanzioni di fine febbraio.

Nel 2014, l’Argentina andò in default “tecnico” per l’ottava volta nella sua storia. In quel caso, i mancati pagamenti furono dovuti al fatto che il paese non adempì alla sentenza del Tribunale di New York, che gli intimava il pagamento integrale dei fondi “avvoltoi”, in assenza del quale non avrebbe potuto saldare neppure gli altri obbligazionisti. Tre anni più tardi, la nuova amministrazione di Mauricio Macri riusciva a collocare sui mercati internazionali un bond a 100 anni con successo, salvo un anno dopo trovarsi costretto a chiedere nuovamente aiuto al Fondo Monetario Internazionale.

Default Russia, numeri dell’evento creditizio

Grosso modo, se la Russia non fosse nelle condizioni di pagare tutti i creditori esteri in possesso dei suoi bond in rubli e valute straniere, oggetto del default sarebbero 70 miliardi di dollari, un ammontare simile a quello dell’Argentina nel 2001.

Non dovrebbe esservi alcun contagio sui mercati finanziari. Anzitutto, perché questo evento creditizio nascerebbe non da cause finanziarie, bensì geopolitiche. Secondariamente, è stato già scontato nei prezzi infimi a cui sono implosi i bond russi. Terzo, le esposizioni complessive dell’estero risultano basse e così come lo stesso debito pubblico russo nel totale non arriva al 20% del PIL. Al netto dei fondi sovrani, sarebbe quasi nullo.

Ma è probabile che il default avrebbe conseguenze negative sulla reputazione russa per diversi anni futuri. I rating resterebbero bassi anche successivamente allo “scongelamento” delle riserve valutarie e pochi investitori stranieri avrebbero voglia di finanziare Mosca. I costi della raccolta per il sistema economico russo sarebbero elevati. Inoltre, il default sovrano rischia di anticipare di poco quello di molte aziende e banche domestiche. E qui le esposizioni con l’estero sono ben maggiori, sebbene colossi come Gazprom e Rosneft ad oggi abbiano adempiuto alle loro obbligazioni in dollari. Non lo stesso dicasi per le ferrovie russe.

C’è un solo dubbio che continua a serpeggiare tra gli investitori: esiste qualche fondo o banca all’estero esposta in misura non marginale verso la Russia? Se così fosse, qualche mal di testa fuori dalla Russia ci sarebbe. Tuttavia, appare difficile immaginare che, dopo mesi di tensioni geopolitiche così forti tra Russia e Occidente e persino dopo l’invasione dell’Ucraina, i creditori siano rimasti con molti bond russi in portafoglio. Sarebbe stato un atto di fede incomprensibile, un harakiri.

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