Al board della prossima settimana, la banca centrale brasiliana con ogni probabilità alzerà i tassi d’interesse. Gli analisti si aspettano una stretta monetaria di 50 punti base. Del resto, la mossa appare obbligata. A febbraio, l’inflazione nel paese sudamericano è salita al 5,2%, mai così alta dal gennaio 2017. Il costo del denaro, fissato ad oggi al 2%, risulta evidentemente molto basso. Il carovita è trainato dal collasso del cambio. Il real perde quest’anno il 6,2% contro il dollaro, dopo che nel 2020 si era schiantato di quasi il 22%.

I rendimenti sovrani sono lievitati anch’essi, con la scadenza a 10 anni ad offrire l’8,12% e quella a 2 anni il 6,39%. Tuttavia, rispetto ai livelli a cui erano saliti agli inizi di marzo, esibiscono un certo arretramento. Probabile che stiano incidendo favorevolmente gli interventi più massicci messi in atto dalla banca centrale per difendere il cambio. Sembra che il governatore Roberto Campos Neto voglia impedire un deprezzamento oltre 5,85-90 contro il dollaro.

Ma alcuni sviluppi minacciano la tenuta del mercato obbligazionario sovrano. Anzitutto, nel 2020 il Brasile ha registrato un’esplosione del deficit fiscale dal 6% al 14% del PIL, pur sotto il 16,4% atteso dal Fondo Monetario Internazionale. Il debito pubblico è salito all’89,3% e quest’anno dovrebbe avvicinarsi al 100%. Livelli altissimi persino per un emittente classificato dalle agenzie con giudizi bassi: BB- il rating assegnato da S&P e Fitch, Ba2 da Moody’s.

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Il ritorno di Lula sulla scena politica

Il deficit dovrebbe ridursi intorno al 7,5-8% quest’anno, senonché il miglioramento dei conti pubblici è insidiato dalla recente ondata di contagi da Covid. I casi quotidiani stanno salendo al ritmo di 75-80 mila al giorno e i decessi hanno accelerato anch’essi ai massimi da inizio pandemia, volando sopra i 2.200 al giorno. La recrudescenza del virus imporrà al presidente Jair Bolsonaro di varare ulteriori stimoli fiscali per tutelare l’economia domestica dopo il -4,1% accusato nel 2020, il peggiore calo di sempre.

E sul fronte politico le notizie che arrivano sono anch’esse negative per la stabilità finanziaria. L’ex presidente Lula è stato scagionato dalla Corte Suprema dalla condanna per corruzione che gli aveva sbarrato la strada alla candidatura nel 2018. Tornato libero, l’uomo potrà correre alle elezioni presidenziali nell’ottobre del 2022, sfidando proprio Bolsonaro. Questo scenario è temuto dai mercati per due ragioni essenziali: la prima, perché un’eventuale vittoria di Lula riporterebbe il Brasile a politiche fiscali lassiste e allo smantellamento delle riforme economiche attuate sia sotto Michel Temer tra il 2016 e il 2018, sia con l’attuale presidenza; la seconda, perché proprio nell’ottica di una estrema polarizzazione elettorale, lo stesso Bolsonaro chiuderebbe l’agenda delle riforme per concentrarsi sul varo di misure popolari.

Sotto Bolsonaro è stata approvata un’importantissima riforma delle pensioni, che in 10 anni dovrebbe ridurre la spesa a carico dello stato di 800 miliardi di real, pari a oltre 120 miliardi di euro al cambio odierno. E senza un visibile risanamento dei conti pubblici, le agenzie di rating declasserebbero ulteriormente i bond brasiliani.

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