A Monfalcone, nella zona di Panzano, dove si trova uno dei cantieri navali di Fincantieri, complesso cantieristico di importanza mondiale, il dibattito pubblico si concentra ultimamente su “chi lavora” e su altre questioni talvolta marginali, piuttosto che su cosa si produce e sulla ricchezza che viene garantita al territorio. “Troppa manodopera straniera”, “eccesso di subappalti”, “troppa confusione”, “scarsa attenzione all’ambiente”: sono queste le preoccupazioni che dominano le cronache locali. Eppure, per chi vive l’esperienza diretta del lavoro, queste paure appaiono paradossali. Il cantiere continua a garantire occupazione, offrendo un lavoro concreto, stabile e produttivo in un territorio che senza di esso avrebbe ben poche alternative.
Il paradosso italiano di Monfalcone
Ci sono aziende come Amazon, Bosch, Ilva, Intel, Novo Nordisk, Procter & Gamble, UPS o Nissan che affrontano tagli occupazionali significativi. Per il colosso fondato da Bezos sono a rischio 14.000 posti di lavoro; Bosch taglierà 13.000 dipendenti, Intel licenzierà 24.000 persone. Stessa sorte per 9.000 dipendenti di Novo Nordisk, 7.000 di Procter & Gamble, 48.000 di UPS, 20.000 di Nissan. Decine di migliaia di posti di lavoro che scompaiono, spesso senza suscitare lo stesso clamore mediatico che si registra a Monfalcone.
Il paradosso emerge con chiarezza: in luoghi dove c’è lavoro reale e disponibile, si discute e si mette in dubbio chi lo svolge; in altri, dove il lavoro viene perso, il dibattito pubblico è decisamente meno acceso. Le motivazioni sono diverse, alcune valide, altre meno, ma alla fine il risultato è sempre lo stesso: la diffidenza verso il mondo industriale. Ma quello che si dimentica è che un Paese industriale che fa meno industria è destinato a perdere peso politico e occupazione.
Cosa accade oltre confine?
Se guardiamo all’estero, il contrasto è evidente. Nei cantieri di Saint-Nazaire in Francia o di Papenburg in Germania operano migliaia di persone di diverse nazionalità senza che la diversità diventi motivo di tensione. Anzi, gli Stati intervengono per proteggere e sostenere la produzione locale: Parigi ha nazionalizzato Chantiers de l’Atlantique per difenderlo da acquisizioni straniere, mentre il Land della Bassa Sassonia ha investito 400 milioni di euro per salvare Meyer Werft, a tutela dell’economia regionale. A Monfalcone, al contrario, la discussione tende a concentrarsi sul “chi lavora” più che sul valore di ciò che viene prodotto, anche nei momenti di maggiore successo.
La diffidenza verso il “fare industria”
Il cantiere di Monfalcone non è perfetto, perché nessuna grande industria può esserlo, ma è innegabile che rappresenti una delle poche realtà italiane capaci di competere a livello globale. Attaccarlo sistematicamente, insinuando sospetti o fomentando diffidenza, non significa fare un vero controllo civico; al contrario, rischia di essere controproducente per l’economia e per la comunità locale. Invece di proteggere il territorio, questa diffidenza fine a sé stessa può indebolire la crescita e la stabilità del lavoro. Il fenomeno riflette un tratto culturale profondo: in Italia, fare industria può suscitare sospetto; la crescita viene spesso vista come qualcosa da controllare o limitare, di cui avere paura, ma difendere e valorizzare chi produce non è un’opzione: è una necessità per il nostro Paese, per il nostro futuro e per quello delle prossime generazioni.

