Mancano due giorni al Consiglio dei ministri, che fisserà le cifre definitive riguardanti le stime su conti pubblici e crescita economica. E in via XX Settembre tira un’aria inconsuetamente positiva riguardo al deficit. Già quest’anno scenderebbe al 3% o anche un po’ sotto tale soglia. Il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, vede più vicina l’uscita dalla procedura d’infrazione per l’Italia. Un risultato, se confermato, che avverrebbe con un anno di anticipo rispetto alle previsioni e che accrescerebbe la buona reputazione del nostro Paese sui mercati.
Procedura d’infrazione, uscita grazie a maggiori entrate e minori interessi
Per il 2025 il deficit era stato stimato al 3,3% del Pil.
Tuttavia, già l’anno scorso era sceso al 3,4% rispetto al 3,8% previsto. E ci sono due buone notizie sui conti pubblici di questi mesi. Le entrate fiscali stanno risultando superiori alle stime e la spesa per interessi inferiore. Certo, c’è da mettere in conto una crescita del Pil limata allo 0,5-0,6%. Tuttavia, il ricalcolo dell’ISTAT per il biennio successivo ha innalzato la base di partenza di 7,4 miliardi. Anche per il 2026 il deficit scenderebbe dal 2,8% sin qui stimato.
Spicca differenza con la Francia
L’uscita dalla procedura d’infrazione sarebbe un grosso risultato d’immagine per il governo di Giorgia Meloni e l’Italia nel suo complesso. Spiccherebbe a maggior ragione in una fase in cui la Francia è costretta a rinviare al 2030 tale appuntamento. Parigi fatica persino a tagliare il deficit dal 5,8% a cui è salito nel 2024. Vediamo quale può essere nel concreto l’impatto di un simile annuncio.
Dicevamo, l’uscita dalla procedura d’infrazione si farebbe più vicina. L’Unione Europea impone un tetto massimo al deficit del 3% rispetto al Pil. Questa norma contenuta nel Patto di stabilità fu sospesa dal 2020 fino al 2023 per la pandemia. Essa comporta una vigilanza rafforzata di Bruxelles sulla gestione del bilancio nazionale. Il governo deve ridurre il disavanzo secondo un percorso concordato con la Commissione. In un certo senso, non ha piena libertà di manovra.
Migliorata reputazione fiscale
Un’ipotesi mai verificatasi, pur contemplata dal Patto, consiste nella comminazione di sanzioni per la trasgressione degli impegni assunti. Sarebbe l’extrema ratio nei confronti di uno stato membro inadempiente. Non è tanto la multa in sé a spaventare i governi, quanto la perdita della reputazione che comporterebbe sui mercati finanziari. E arriviamo al vero nocciolo della questione. Non è tanto la procedura d’infrazione a rilevare, quanto ciò che segnala agli investitori: l’eccesso di deficit. L’uscita da essa porta un beneficio proprio in termini di affidabilità creditizia.
E l’Italia sta beneficiando da tempo del miglioramento dei giudizi delle agenzie di rating. L’ultimo upgrade è arrivato due venerdì fa ad opera di Fitch. Una presa d’atto di quanto già i mercati raccontano con la compressione dello spread. Ma l’uscita dalla procedura d’infrazione ha un effetto pratico immediato. L’Italia potrebbe decidere di avvalersi della clausola di salvaguardia per aumentare la spesa militare, come da accordi NATO.
Non è detto che lo farà. I mercati finora ci hanno favoriti proprio per la prudenza fiscale ostentata dal governo italiano.
Nessun margine con uscita da procedura d’infrazione
Prima o poi a Roma bisognerà svelare come s’intenda finanziare il riarmo. Per quanto estensive siano le voci di spesa ad esso connesse, un aumento del budget per la difesa risulterà indispensabile. La questione si porrà nel concreto dai prossimi anni, quando l’Italia dovrà adempiere agli impegni assunti. Per le altre voci di spesa, resta poca trippa per i gatti. Un calo del deficit al 3% o poco sotto non lascerebbe margini per incrementare gli stanziamenti in favore di questo o quel capitolo, né per tagliare le tasse in deficit. La fine della procedura d’infrazione non darà l’avvio ad alcun spandi e spendi. Con un debito pubblico al 135%, è la realtà a limitare i nostri margini di manovra.
giuseppe.timpone@investireoggi.it

