Arte e psicologia: tra volere e potere (1 Viewer)

baleng

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Prendendo spunto dal 3d con le stampe giapponesi ...
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si può analizzare, almeno sino a un certo punto, il rapporto tra queste opere e la società che le produsse, e proprio partendo dalla stampa e senza saper molto della società giapponese.
Intanto, si nota come sempre la composizione sia calibrata, equilibrata, armoniosa. Questo ha a che vedere con il rapporto tra individuo e società, almeno nel senso che i conflitti e i contrasti non devono evidenziarsi, ma piuttosto venire composti in una superiore armonia. Poi, che ciò rispecchi la vita quotidiana o solo quella di una parte della popolazione, o addirittura le aspirazioni sociali non necessariamente sempre realizzate, questo è un altro discorso.
La cura nell'armonizzare i colori è certo in rapporto con l'approccio ai piaceri visti nella loro raffinatezza, in particolare quelli tra i due sessi. Dove però si nota una sostanziale "mancanza di iniziativa" dei personaggi.
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tutt'al più colti nella normalità di una azione comune.
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Poi, che ci si soffermi molto sulla ricchezza delle vesti femminili può far riflettere su una società dove la ricchezza in sé dà possibilità di potere, di bellezza, di riconoscimento sociale: un po' come nella Belle Epoque, che, ovviamente, fu tale soprattutto per le classi alte.
 

baleng

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Sempre a partire dalle stampe giapponesi, sorgerebbe la questione delle immagini stereotipate nell'arte.
Le bamboline di moda disegnate dalle ragazzine ne sono piene, ma anche la pittura pre-giottesca (o, più direttamente, quella bizantina) semplifica le forme sempre allo stesso modo, o quasi. Simili considerazioni per la grafica Art Deco.
Analizzando il fenomeno, esso appare presentare varie origini. Infatti, nei disegni dei bambini (la casa col comignolo "storto") da una parte si suppone la presenza di stereotipi mentali, di immagini archetipiche addirittura prenatali. Dall'altra, si comprende che, allorché il bambino trova soddisfazione nell'uso di determinate figure, le quali in qualche modo corrispondono a ciò che lui si immagina (non a ciò che lui vede, questa è una attitudine che può essere soddisfatta solo molti anni dopo), chiaramente le ripete con piacere. E ne ricava identità, espressione e anche sicurezza. Tanto più in seguito quando, confrontandosi con la realtà, una bambina preadolescente si accorge con gran gusto che un naso visto frontalmente può essere indicato da due semplici puntini/buchini, il ragazzino realizza che la ruota del suo coupé non va disegnata tutta sotto alla carrozzeria, ma per metà dentro, "come la si vede", il pittore adulto capisce che le finestre di un palazzo si possono suggerire con una semplice pennellata verticale di colore scuro. Sono "trucchi" cui si può legittimamente attingere, ma che sono pericolosi per chi si fermi ad essi.
Dunque lo stereotipo in parte è interiore, in parte acquisito: quest'ultimo aspetto diviene sempre più importante man mano che si vada considerando l'adulto, o, nella visione generale, la storia dell'arte.
Perché sapere che "un occhio si fa così" o che "per ottenere un effetto di prospettiva devi fare cosà", sono pur sempre elementi di uno sviluppo: solo che questo sviluppo può essere seguito passivamente ovvero criticamente e in modo creativo. Che la scelta sia di un tipo o dell'altro dipende certamente da inclinazioni individuali (il "genio", per esempio) o da costrizioni sociali.
Su questo occorre approfondire.
 
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baleng

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Si può apprezzare o meno De Pisis, comunque questo modo compendiario di trattare Venezia almeno in parte inizia con lui.
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Neno Mori ne utilizza gli elementi stiistici

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poi di seguito Zanutto
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Dalla Zorza ecc.

Voglio dire che quello che all'inizio era un espediente linguistico, di comunicazione, diviene stereotipato (cioè di maniera) man mano che viene imitato il risultato (non l'ispirazione).
Non vuol dire che le opere siano poi brutte. Ma sono sempre meno "geniali".

Però quello che importa ora è capire quali siano le motivazioni che spingono ad adottare certe forme stereotipate. Mi pare evidente che motore di tutto sia il successo, dunque l'autorità che ne deriva, il denaro ottenuto, il riconoscimento sociale. Tutto questo somiglia alle motivazioni del bambino, che dal disegno che riesce tramite "espedienti" ottiene una conferma di sé, del suo essere persona riconosciuta. Quasi lo stesso meccanismo del "branco" :confused:

Molti affermano che nel creare arte serve il nuovo: questo ha qualcosa di vero. Infatti al "nuovo" corrisponde frontalmente un minore accodarsi alle stereotipie precedenti, dunque una sicurezza di sé che non viene cercata attraverso l'approvazione sociale, ma attraverso l'affermazione del proprio sentire. Qui stanno il talento ed il genio.
In pratica, più ti adatti alle prescrizioni e più sei artigiano, più segui il tuo vedere e più puoi essere artista. Perché nulla è garantito.
 

Heimat

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Mi aggancio allo stereotipo per osservare che si parte sempre da un prototipo che, qualora risponda a degli stilemi apprezzati, diventa stereotipo se non addirittura seriale.
 

baleng

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Mi aggancio allo stereotipo per osservare che si parte sempre da un prototipo che, qualora risponda a degli stilemi apprezzati, diventa stereotipo se non addirittura seriale.
Riprendo ancora un discorso dal 3d https://www.investireoggi.it/forums...ria-di-immagini.88055/page-42#post-1045139431

La lingua scritta giapponese è un sistema di forme semplificate (deriva dal cinese, che rimane moooolto più complesso). Voglio dire che, mentre l'alfabeto latino (pure l'arabo) è un sistema di segni da combinare, con risultati di numero vastissimi, nel cinese a ogni forma corrisponde una parola (pur se si parte da una forma base, da cui nascono, per addizione, parole derivate), perciò devono avere moltissimi simboli e una memoria pazzesca (vale anche per il giapponese, ma in misura minore). Di conseguenza viene il fatto che questi popoli orientali sono bravi a copiare ben più che a inventare in quanto sono addestrati a riconoscere forme, non a combinare segni. Su altro piano questo corrisponde ad un permanere di stilizzazioni nella cultura in generale, con minore capacità di cambiare o di inventare ex-novo.
Poi ci si può chiedere quanto questa persistenza del prototipo, o modello, sia in rapporto ad una situazione sociale statica. Perché, mentre la stilizzata Art Deco dura un paio di decenni o poco più, e infatti il mondo in cui essa prospera continua a cambiare vorticosamente (ma nel ventennio - all'incirca - vi erano forti spinte all'immobilizzazione della società), per il teatro giapponese o per l'arte bizantina siamo sicuramente in presenza di una società bloccata e certo non disponibile a cambiare. Forse vale anche per l'arte musulmana, ma non la conosco abbastanza da esserne certo: probabilmente la dipendenza di quella società da un codice religioso immutabile contribuisce comunque in tal senso.
Anche nell'arte "araba", comunque, troviamo disinteresse, se non ostilità, verso l'io, l'individuo come valore in sé: fatalità, anche in questo caso gli aspetti di colore e decorazione intensificati accompagnano tale fenomeno.
Un altro periodo, più breve, di stilizzazioni artistiche è il Barocco/Rococò (in realtà quest'ultimo: il Barocco ha in sé tutti i tumulti di una lotta interiore individuale e, almeno nella pittura, rinuncia spesso alla bellezza del colore e dei suoi piaceri). Al colore e al decorativismo rococò si accompagna una società immobile, controllata da aristocrazie varie, che termina con a Rivoluzione Francese. Forse in parte anche il gotico, del tardo Medioevo, con le sue stilizzazioni, si accompagna ad una società fortemente controllata dall'alto, e si rivolge al potere delle corti cui ovviamente cerca di non dispiacere, ed evita forme di forte individualismo che potrebbero urtare i committenti.
Tutto ciò secondo me corrobora il discorso fatto in precedenza: semplificando, ad un potere immobile corrisponde un'arte stilizzata e colorata, ad una situazione che favorisce invece la crescita dell'individualità corrisponde non tanto un bianconero, ma un uso del colore non in chiave decorativa, bensì in chiave espressiva.
Infatti la riscoperta dei valori individuali risorge nell'Italia mutevole dei comuni e delle signorie, Giotto e Masaccio iniziano a proporre forme più individualizzate e scultoree, ed assai meno portate al decorativismo.
Magari più avanti cerco esempi. :specchio:
 

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(da altro thread) Non ti facco proprio un "timidone" alla Mammolo visto quanto sai essere acuto e insieme impertinente! :p

Ritornando al post precedente è da un pò che mi interrogo su un tema, di quale influenza o legame psicologico ci sia tra quello che si è e quello che ci colleziona, se ad es. il sentirsi orientati verso un determinato movimento derivi da una determinata inclinazione o implichi un qualche comune denominatore caratteriale, ad. es. se si rivolge all'Analitica chi è più rigido, pignolo e tosto rispetto ad un'arte tanto "cerebrale" e logica piuttosto dei "pop-artari" mediamente più ludici e scanzonati e un pò sopra le righe magari un pò superficiali etc.

Analogamente mi chiedo, visto che quello che si colleziona è in buona sostanza una "proiezione di sè", se funziona come nelle relazioni, dove un rapporto si costruisce in genere "per affinità" o "per compensazione". Se guardo ad es. all'analitica è perchè mi corrisponde nella mia componente razionale e controllata o perchè in essa trovo quell'equilibrio che mi manca e che mi risulta così rassicurante, per cui l'arte colma una carenza.
In questo senso è anche comprensibile il legame con te ed Acci, riconoscendo in entrambi qualità che appagano una mia componente e nelle quali mi riconosco, oltre alla libertà di non piacere e di dire cose scomode con un'ironia tagliente e sincera, caratteristiche che apprezzo e condivido.

Il problema delle scelte fatte da un collezionista, ma anche da chiunque voglia appendersi un quadro al muro ("a parete" dicono i televendosservatori ;) ), problema ben sintetizzato nella tua prima riga, credo se lo ponga chiunque acquisti un'opera. A suo tempo, ma non ricordo dove, ho scritto che forse si tratta di "raccontare" sui muri di casa la storia della nostra personale evoluzione. In questo senso, qualcosa nel tempo cambia. E comunque l'atteggiamento di tutti è certo quello di "ammettere nel proprio recinto una certa espressione". Poi, si può ammettere sia quello in cui ci riflettiamo (di solito riguarda la maggior parte dei quadri) sia anche quello che compensa le nostre mancanze. Che così viene ad assumere, in mezzo a tanta orgia di egocentrismo, come di frequente si può notare (soprattutto nei forum d'arte ;) ) il ruolo di una specie di memento mori, o, più semplicemente, del movimentatore in mezzo ad un panorama troppo uniforme (in qualche modo lo stesso ruolo spesso lo hanno il coniuge, o i figli).
Se guardo le mie pareti, dov'è accatastato di tutto, ci vedo tuttavia o il segno di un passato un po' ingombrante, da smaltire lentamente, ovvero l'esposizione di qualcosa che, pur di necessità apprezzabile, più di tanto non deve [dis]turbarmi. I veri tesori dell'anima stanno nascosti, di solito in cartella, per lo stesso motivo per cui non si può fare carnevale tutto l'anno.
E certe occasioni appena acquistate non si vedranno perché, pur apprezzando molto l'opera, la sua presenza in casa mi costringerebbe ad un eccessivo lavoro di compensazione intellettuale (cioè vederla, dire che è ben fatta, e poi ogni volta ricordarmi perché quello non è il mio mondo, e comunque è troppo ingombrante per rimanere lungo tempo nel mio spazio). In pratica, ciò va nell'appartamento-magazzino, e tanti saluti.
 
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Tutto ciò secondo me corrobora il discorso fatto in precedenza: semplificando, ad un potere immobile corrisponde un'arte stilizzata e colorata, ad una situazione che favorisce invece la crescita dell'individualità corrisponde non tanto un bianconero, ma un uso del colore non in chiave decorativa, bensì in chiave espressiva.
Infatti la riscoperta dei valori individuali risorge nell'Italia mutevole dei comuni e delle signorie, Giotto e Masaccio iniziano a proporre forme più individualizzate e scultoree, ed assai meno portate al decorativismo.
Magari più avanti cerco esempi. :specchio:


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Non dico nulla di nuovo se ricordo come questo crocefisso di Cimabue segua canoni classici piuttosto stereotipati. E' pur vero che vi aggiunge il meglio possibile del garnde artista, ma il Cristo resta un personaggio di quadro più che un essere vivente. Il Cristo attribuito a Giotto appare meno in posa, più concreto, insomma vi è in lui più umanità. In questo esso corrisponde alla nuova età dei Comuni, con un maggior senso della propria individualità. Significativamente ciò corrisponde anche allo sviluppo dell'individuo, passando dalla tappa in cui si rappresenta ciò che si pensa (qui già però ciò corrisponde a quando si è operata una stereotipizzazione) a quella successiva in cui si osserva con i propri occhi. In pratica, dalla preadolescenza all'adolescenza>maturità

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e già ... ma con i moderni dove cercare?

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Chagall, naturalmente. Occorre dire che il periodo terminale dell'epoca che idolatra l'io si ha tra fine settecento e primo ottocento. Già nel periodo in cui opera Chagall, primo novecento, il senso dell'unità si è perduto, o meglio, ha iniziato ad evolversi verso una molteplicità che conserva memoria della raggiunta unità. L'io scisso in Freud, Jekill-Hyde ecc non è solo un processo di decadimento: se tenuto sotto controllo, si tratta di un processo di ampliamento.
In questo dipinto del pittore ebreo (!) ci colpiscono la severità del colore (segno che il senso della situazione si è esteso al colore, che una volta, anche in Giotto, era più legato a convenzioni, e poteva essere brillante pur nella tragedia) e la sommarietà dell'anatomia, che invece in Giotto risultava una conquista. Sappiamo che questa semplificazione è dovuta alla perdita di valore artistico dell'anatomia, oggi data per scontata (oltretutto dopo la fotografia). Si permette al pittore di intensificare altro che la precisione anatomica.

Interessante paragonarla con la Crocifissione del Tintoretto (Venezia, Scuola di San Rocco). Ambedue le opere traggono dinamismo da linee diagonali simili. Tutti gli episodi periferici si riferiscono direttamente alla "storia" che vede il Cristo al centro, il loro esito, per esempio, sarà evidente quando i fatti saranno compiuti. Ecco realizzata la centralità dell'io, ben presente nella sua verticalità nel giusto mezzo sia di spazio che di tempo. Nonostante un uso già psicologico dei colori scuri (per drammatizzare), la scena è occupata da molti colori brillanti, quelli delle vesti soprattutto, o da riflessi chiari che indicano il rifrangersi della luce. Il nostro sentimento nasce a poco a poco nell'osservazione e nella coscienza dei fatti. In Chagall tutto è immediato, alla tragedia centrale dell'io risponde, amplificandola, la tragedia di tutto un mondo (il mondo ebraico). Così che una "corrente" investe tutto e mostra l'io non più solo immobile nello spazio, ma travolto dalla relatività del tempo. Il quale non è più vissuto come un elemento esteriore, già dato, come la sedia in cui uno stia seduto, ma come un prodotto stesso della metamorfosi dell'io.
La precisione delle forme si sta dunque sfaldando a poco a poco, e l'io si metamorfosa dissolvendosi, come il seme si dissolve nella pianta.

Però si tenga presente che sia in Tintoretto che in Chagall la forza della scena colpisce già quando il riconoscimento totale dei dettagli non sia ancora avvenuto. Cioè, la comunicazione è prima di tutto di tipo formale, non contenutistico. Questo differenzia l'artista dall'illustratore.
 
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baleng

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Ci sta in questo 3d l'osservazione sulla diversa fruizione dell'arte (qui: del quadro) in contesti culturali diversi.
Nei paesi latini, come il nostro, la presenza secolare di immagini religiose influenza il fatto che il quadro venga sentito con rispetto, venerato, portatore di una informazione spirituale. Questo atteggiamento si estende anche all'apprezzamento di, per esempio, scene profane, di circo, erotiche ecc. Sempre ci si pone di fronte all'opera con uno speciale rispetto.
Nei paesi anglosassoni non c'è questo speciale legame, l'arte è vista soprattutto come una decorazione atta a migliorare il proprio ambiente di vita: ciò facilita la concezione dell'arte come oggetto, merce. Per paradosso tale "merce" potrà, a livello popolare, tenere i prezzi più bassi che in quei paesi dove il "rispetto", il "sacro", tenderanno a sostenere i prezzi. Ovvero essere oggetto di speculazione commerciale e raggiungere prezzi incredibili.
Così si è visto come da quando il centro dell'arte si è spostato da Parigi a New York (e Parigi non è certo al massimo del rispetto per l'opera, avendo vissuto intrecci di culture diverse da quella cattolica), allora il vero valore spirituale del "quadro" abbia perduto la precedente importanza, l'opera è più "merce" di prima. Al punto che il suo valore artistico intrinseco conti ben poco: maggiore influenza avranno i sostrati pubblicitari, l'opera del denaro nelle gallerie, la pressione politica ecc.
Si potrebbe ancora considerare il valore dell'icona nella cultura ortodossa. Nel suo evitare quasi ogni evoluzione, nonché nella sua immobilità stilistica, l'icona si pone come un lembo materiale della spiritualità universale/divina, dove all'individuo resta ben poco spazio per cercare di distinguersi e di "promuoversi". L'icona rappresenta sempre l'invisibile, che è anche immutabile ed irragiungibile oltre che scevro da evoluzioni. Di conseguenza il valore dell'opera dipenderà molto dal suo peso spirituale, e così per il prezzo.

In pratica
: l'Oriente europeo a) guarda l'immagine per vedere/immaginare il divino; l'arte cattolica b) cerca nell'immagine la spiritualità inserita nella fisicità, gli anglosassoni c) mirano soprattutto alla fisicità senza richiami esteriori.
a) Miro all'invisibile, b) vedo l'invisibile, c) non voglio vedere l'invisibile,.
 

baleng

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Vorrei aggiungere una conseguenza del post precedente. Una considerazione sulla mutabilità dell'opera d'arte.
In ambito cristiano ortodosso, quello delle icone, l'individuo in sé deve contare poco. Lo scopo dell'artista non è affermare sé stesso, ma la spiritualità dell'immagine. La quale, dunque, non ha nessun bisogno di essere stravolta: deve rimanere riconoscibile e non provocare "traumi" nell'osservatore. Qualche analogia esiste con l'arte egizia antica che, come piaceva a Platone, era rimasta la stessa per migliaia di anni. Ciò avvenne per motivi simili a quelli appena scritti: il "misero" individuo che dipingeva doveva ritrarsi il più possibile di fronte alla sacralità e maestosità del potere, e comunque non era certo suo compito porsi in primo piano innovando la tradizione.

Ed è questo il punto.

Nell'arte occidentale l'individuo conta sempre di più, e dunque l'evoluzione del rappresentato è sempre più rapida. Il messaggio è sempre meno nell'immagine riconoscibile, e sempre più in ciò che l'immagine ci comunica dell'autore. Un curioso momento si ebbe con il Barocco, periodo in cui le due tendenze, quella dell'importanza del rappresentato e dell'importanza dell'autore, convissero parallelamente, in quanto la sacralità della Controriforma, pur portando all'immobilità delle prescrizioni catechistiche, al tempo stesso voleva riaffermare in modi esteriori il predominio del Cattolicesimo. Se vogliamo, la parte conservatrice si espresse nei colori oscuri spesso presenti, la parte individualistica nella scelta dei modi con cui stupire l'osservatore (già questo dover stupire per ottenere autorità mostra un'intrinseca debolezza di fondo di tale concezione del potere).

Infine, dove si osserva, nell'arte occidentale, la differenza tra "vedo l'invisibile" dei paesi latino-cattolici e il "non lo voglio vedere" dei paesi anglosassoni? Direi che si osserva nel fatto che, per esempio concreto, gli artisti italiani hanno sempre tenuto presente la necessità che l'opera fosse permeata di una più o meno composta armonia. Armonia che appunto rappresenta la persistenza dello spirituale nell'opera. Questa armonia si presenta anche sotto il termine di idealismo, per quanto spesso assolutamente inconscio. Viceversa, la cultura anglosassone, non avendo questa remora, è passata presto a rappresentare anche il "brutto", il disarmonico, esplorando così senza pregiudizi idealistici la materialità del mondo e del pensare.
Si pensi ai sacchi di Burri o ad Afro, così attenti a calibrare i pesi delle varie componenti nel quadro. E viceversa, si pensi a Cy Twombly o David Hockney dal lato opposto, così individualisti da proporci anche lo sgraziato, il gesto goffo, come espressione della realtà materiale.
Poi, è ovvio che ci sono varie sfumature e non tutti gli anglosassoni siano estremisti del disarmonico e viceversa non tutti i cattolatini si inchiodino all'ideale di bellezza.
 

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