Nel Nord Europa c’è uno stato che gran parte del mondo associa al paradiso terrestre. Ricco, tranquillo, città ordinate, pulite e popolazione molto istruita e in salute. E’ la Norvegia e dispone di un fondo sovrano da fare invidia a qualsiasi governo. Il Norges Bank Investment Management ha appena 30 anni di vita e già detiene asset per 20.945 miliardi di corone norvegesi, che ieri equivalevano a circa 2.095 miliardi di dollari. Sono già tanti così, figuratevi per una nazione di appena 5 milioni e mezzo di abitanti. Ciascuno di essi possiede indirettamente qualcosa come 376.000 dollari. Tanti il loro governo è stato capace negli anni di accantonare per le future esigenze.
Asset elevati grazie a petrolio e gas
Nel terzo trimestre, il fondo della Norvegia ha maturato un profitto del 5,8%, pari a 102,56 miliardi di dollari. Esso è stato determinato dal 7,7% esitato dalle azioni in portafoglio, dall’1,4% delle obbligazioni, dall’1,1% degli asset immobiliari non quotati e dallo 0,3% delle infrastrutture per le energie rinnovabili. Esso investe gli asset per il 71,2% in azioni (40% nei soli USA), il 26,6% in obbligazioni, l’1,8% in immobili non quotati e 0,4% in infrastrutture per energie rinnovabili.
A proposito di investimenti azionari, essi risultano effettuati in ben 9.000 società di 70 stati in tutto il mondo. Per questa ragione il fondo della Norvegia possiede l’1,5% dell’intera capitalizzazione mondiale. La svolta avvenne negli anni Novanta, quando Oslo capì che poteva sfruttare la ricchezza di petrolio e gas per accantonare risorse per il futuro. Istituì quello che è formalmente un fondo pensionistico, alimentato dai proventi delle due materie prime. Lo stato può effettuare prelievi solo in misura limitata e quasi sempre è accaduto che questi fossero inferiori ai nuovi depositi, per cui le dimensioni del fondo sono quasi sempre cresciute di anno in anno anche al netto dei rendimenti.
Conti pubblici in attivo
La Norvegia chiude i bilanci costantemente in attivo. Pensate che negli ultimi 30 anni ha avuto un deficit solamente nel 2020, l’anno della pandemia, e solamente per il 2,60% del Pil. Lo scorso anno, invece, ha registrato un avanzo del 13,10%. I conti pubblici scoppiano di salute e il debito pubblico vale intorno al 44% del Pil. Ma se includiamo nel calcolo gli asset del fondo, ai prezzi di mercato di ieri la Norvegia avrebbe un debito negativo di quasi il 390%. In altre parole, riuscirebbe ad azzerare il suo debito e a rimanere con attività patrimoniali quasi quadruple rispetto al suo prodotto interno lordo già elevato.
Non c’è bisogno che vi diciamo che i bond norvegesi godano dei rating tripla A. La curiosità è un’altra: il decennale offre un rendimento del 4% contro il 2,60% della Germania, il 2,50% della Svezia e lo 0,14% della Svizzera. Questi sono altri stati con il massimo giudizio delle agenzie internazionali. Perché un’economia così solida sul piano fiscale offre rendimenti superiori all’Italia? Il cambio è il punto debole di questa narrazione estremamente positiva. Ha perso l’11,5% contro l’euro negli ultimi due anni.
Fondo sovrano in Norvegia successo senza eguali nel mondo
La ragione si deve essenzialmente al fatto che il cambio sia esposto alle fluttuazioni del petrolio sui mercati internazionali. Inoltre, i proventi che alimentano il fondo sovrano escono dalla Norvegia per essere investiti all’estero. Al fine di non distorcere il mercato domestico con investimenti possibilmente tendenziosi, l’ente non può che acquistare asset stranieri. Di fatto, questa immensa ricchezza si trova tutta all’estero. A parte ciò, lo stato scandinavo presenta caratteristiche positive uniche sul piano della solidità finanziaria in favore dei suoi abitanti. Nessuno al mondo ha fatto altrettanto bene.
Invidie a parte, le critiche non mancano. Il peso del fondo della Norvegia, onnipresente nei board delle società partecipate, ha fatto discutere ultimamente circa lo strapotere che, indirettamente, Oslo si ritaglierebbe nell’economia mondiale, propinando politiche aziendali in linea con idee e interessi propri. Si pensi al sostegno alla svolta green, apparente paradosso per un ente che si finanzia grazie agli idrocarburi. E ha attirato le ire dell’amministrazione Trump negli ultimi mesi, quando ha annunciato che non investirà in società legate a Israele. In passato, aveva fatto altrettanto con le società nell’ambito petrolifero.
giuseppe.timpone@investireoggi.it

