Sempre alta la tensione sui BTp. Lo spread a 10 anni con i Bund, sceso in chiusura di seduta ieri poco sotto i 300 punti base, è risalito sopra tale soglia stamattina e i rendimenti decennali continuano a sostare in area 3,50-60%, praticamente quasi doppiando gli omologhi del Portogallo, stato salvato non più tardi di 7 anni fa dalla Troika (UE, BCE e FMI) con 78 miliardi di euro e rimasto sotto la sua assistenza finanziaria fino al 2014. Per non parlare dello spread con la Spagna, esploso a 200 punti, livello mai così alto prima.

Peggio di noi nell’Eurozona fanno solo i titoli di stato della Grecia, che sul tratto a 10 anni rendono il 4,50%, solo 90 bp più dei nostri bond. C’è da scommetterci che la tensione resterà alta per ancora settimane, se non mesi. La manovra di bilancio dell’Italia dovrà passare le forche caudine della Commissione europea dalla metà di questo mese, mentre alla fine di ottobre è atteso il responso di due agenzie di rating: S&P il 26 e Moody’s verosimilmente il 31. Quasi scontato un declassamento, anche se i più ritengono che non si arriverà a una bocciatura tale da scaraventare i nostri titoli al livello “non investment grade”, ossia in quel territorio noto anche come “junk” o “spazzatura”.

E se adesso i bond spazzatura sono diventati più appetibili con la fine del QE?

Entrambi gli istituti hanno ad oggi sui nostri BTp un giudizio di 2 gradini sopra tale livello, rispettivamente “BBB” e “Baa2”. Perdere lo status di “investment grade” non sarebbe solo una lesione al residuo onore di cui godono ancora i nostri titoli di stato, ma correremmo il rischio di subire le conseguenze di una fuga dei capitali dall’Italia, visto che molti fondi di investimento e la stessa BCE per statuto non potrebbero più acquistare i nostri BTp e nemmeno tenerli in portafoglio.

Il mercato avrebbe già scontato un simile scenario, se è vero che i nostri bond risultano trattati al pari, anzi persino peggio, di quelli di paesi emergenti come il Sudafrica e il Brasile. Parliamo dei “credit default swaps”, i titoli che assicurano contro il rischio fallimento di uno stato emittente. Quelli per proteggere gli investimenti sui BTp costano quasi 270 punti base, ossia il 2,7% del capitale assicurato per la durata di 5 anni, 3 volte i livelli di inizio maggio. Quando il rischio default percepito per un paese sale, aumenta anche il prezzo dei cds per assicurare i titoli emessi da quel paese, come accade per qualsiasi polizza che tuteli contro un evento. E così, la lievitazione dei costi relega i nostri BTp a livelli più costosi da assicurare dei titoli delle suddette economie emergenti. I bond brasiliani richiedono un esborso inferiore ai 220 punti e quelli sudafricani poco di più.

L’anomalia di un’Italia trattata peggio delle emergenti

Dunque, l’Italia sarebbe più a rischio default di economie come Indonesia, Messico, Russia, Sudafrica e Brasile? Questo il responso del mercato, almeno di una parte di esso. Perché guardando ai rendimenti, nonostante l’esplosione di questi mesi, non pare che la condizione dei BTp sia ancora minimamente paragonabile a quella delle succitate economie emergenti. I decennali sudafricani (rating “Baa3” per Moody’s e “BB” per S&P) offrono oggi il 9,24%, quelli brasiliani (rating “Ba2” per Moody’s e “BB” per S&P) il 10,75%. Al netto dei tassi di inflazione vigenti nei rispettivi stati, parliamo di rendimenti reali superiori al 4% e al 5%. In Italia, non si va ancora oltre il 2%. Certo, in questi livelli risiedono probabilmente previsioni difformi sui tassi di cambio. L’euro è atteso in rafforzamento nei prossimi anni, mentre le valute emergenti sono tipicamente erratiche, risentendo spesso di fattori come il trend delle materie prime e le tensioni geo-politiche.

In sei mesi, i decennali italiani hanno perso il 13,6%, i quinquennali quasi l’11% e i biennali il 2,4%. Tornare alle quotazioni pre-maggio non sarà semplice e immediato, ma nel caso in cui il rischio percepito si abbassasse nei prossimi mesi, magari a seguito di un allentamento delle tensioni tra Italia e Commissione UE, l’inversione di tendenza premierebbe i possessori dei titoli. Gli investitori istituzionali si prenderebbero qualche soddisfazione rivendendo i nostri bond a prezzi superiori a quelli di acquisto, ma per contro avranno pagato inutilmente e a caro prezzo l’assicurazione contratta con i cds, le cui quotazioni si abbasserebbero con la minore percezione del rischio. Oggi come oggi, bisogna sottrarre lo 0,55% di rendimento all’anno per ripagare i cds. Anche questo spiega il boom dello spread. Ripetiamo: a meno di non temere un “downgrade” sotto il rating “BBB-“, rendimenti al 3,6% per la scadenza decennale e a ridosso del 2% per quella a due anni non paiono compatibili con i fondamentali, né sostenibili con un mercato che nel resto delle economie avanzate continua a offrire rendimenti sottozero o negativi in termini reali anche nel tratto a lungo. O il rischio Italia si materializza e giustifica l’anomalia o l’extra-premio richiesto dagli investitori è destinato a contrarsi.

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