Ieri, il Tesoro è riuscito a collocare sul mercato il nuovo BTp a 3 anni senza cedola e al rendimento del -0,14%. Siamo tutti felici dell’esito, anche perché nel frattempo il BTp a 10 anni è sceso al suo nuovo minimo storico dello 0,655%. Senonché i mercati finanziari non hanno ripreso fiducia verso l’economia italiana e la capacità di Roma di rendere sostenibile il suo immenso debito pubblico. Semplicemente, la BCE li sta inondando di liquidità e si accingerebbe a potenziarla nei prossimi mesi, causa nuova emergenza Covid.

Volete una prova? I rendimenti italiani restano i più alti in Eurolandia insieme a quelli della Grecia.

Lo spegnimento dell’incendio dello spread sta facendoci distogliere lo sguardo dal grave deterioramento in corso per i nostri conti pubblici. Tutte le economie avanzate subiranno un duro contraccolpo dalla crisi sanitaria, ma le prospettive per l’Italia si mettono male anche per il medio-lungo termine. Il governo Conte ha messo mano alla Nota di aggiornamento al Def (NADEF), praticamente rivedendo le stime macro precedenti. Stando alle nuove, a seguito della manovra di bilancio da approvare in Parlamento,

il debito pubblico salirà a 2.731 miliardi nel 2021 (dai 2.600 miliardi di fine 2020; eravamo a 2.410 miliardi a fine 2019), lievitando a 2.837 miliardi nel 2022 e ancora a 2.903 miliardi nel 2023.

Quanto al pil, previsto un recupero del 6% nel 2021, seguito dal +3,8% nel 2022 e dal +2,5% nel 2023. Rispetto al quadro tendenziale, cioè al netto della manovra, l’economia registrerebbe un +0,9% nel 2021, +0,8% nel 2022 e +0,7% nel 2023. Tra 3 anni, il rapporto debito/pil si attesterebbe al 154%. Cosa si evince da questa sfilza di dati, che lasciano il tempo che trovano, se proprio vogliamo essere onesti? Che il governo Conte intende aumentare il debito pubblico di circa 300 miliardi in 3 anni, a fronte di un aumento cumulato della crescita di appena il 2,4%, pari allo 0,8% all’anno.

Debito pubblico raddoppiato in Italia dal 2000 e la Spagna l’ha quadruplicato

Boom del debito, bassa crescita

Implicitamente, il premier Giuseppe Conte e il suo ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri, stanno segnalando di lasciare in eredità un debito ancora più gigantesco di quello che erediteranno con il Covid e senza che ciò stimolerà in misura significativa il pil.

Alti costi a fronte di risultati scarsi. In economia, una simile condizione si definisce inefficiente e poco efficace. Concedeteci il dubbio, poi, sulle previsioni macro. Che l’Italia rimbalzi del 6% l’anno prossimo, di quasi il 4% tra due e del 2,5% tra tre ci appare uno scenario a dir poco ottimistico. Ricordiamoci che al termine del 2019 stavamo ancora sotto di circa 4 punti percentuali ai livelli di ricchezza prodotta nel lontano 2007, l’anno che precedette la grande crisi finanziaria globale.

L’allarme lo ha lanciato anche Banca d’Italia, che con il governatore Ignazio Visco ha ribadito le critiche a un’impostazione di politica economica fondata sul debito. Egli ha messo in guardia dagli scenari post-Covid, quando le condizioni di mercato potrebbero mutare. Tra le righe, ha voluto porre l’accento sulla non sostenibilità di un debito che sosti al 150% del pil, perché in assenza di proroga degli stimoli monetari i costi per servirlo aumenterebbero a un punto tale da squilibrare i conti pubblici strutturalmente. Abbiamo bisogno di crescere, cioè di riforme che guardino ai prossimi 20-30 anni, non ai sondaggi del lunedì di Enrico Mentana. E di riforme non si ha traccia, né di sostegno agli investimenti pubblici, di cui tutti i partiti si riempiono la bocca. Come ha denunciato l’ex ministro ed economista Mario Baldassari, essi cresceranno di soli 3 miliardi nel 2021 e di 5 nel 2022.

Dovremo sperare che non si tratti di una svista, bensì di una manovra che escluda per il momento dal computo la maggiore spesa in conto capitale da finanziare attraverso il Recovery Fund.

Mai come in questo momento l’Unione Europea si sta mostrando apertissima al deficit spending. E mai come in questo momento stiamo perdendo l’opportunità storica, forse irripetibile, di rimetterci in carreggiata laddove siamo rimasti indietro, cioè sul piano delle infrastrutture. Come per incantesimo, anche stavolta sta prevalendo la tentazione di usare la spesa pubblica per fini di consenso spicciolo, sperperando i denari raccolti sui mercati a tassi infimi in voci assistenziali e che, anziché potenziarla, rischiano di frenare la già ridicola crescita pre-Covid. Tra qualche anno, abbiamo almeno la decenza di non prendercela con Bruxelles.

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