La riforma biennale del sistema di rivalutazione delle pensioni fa ancora discutere. Il governo Meloni ha introdotto sei fasce corrispondenti ad altrettanti importi degli assegni, a fronte dei tre scaglioni vigenti per quest’anno. Non cambia nulla per gli assegni fino a 4 volte il trattamento minimo, che resteranno agganciati all’inflazione per il 100%. Sopra tale importo (circa 2.100 euro al mese), invece, ci sarà da gennaio una deindicizzazione crescente fino al 35% dell’inflazione per cifre superiori a 9 volte il trattamento minimo.

La nuova ipotesi allo studio del governo

Le polemiche giustamente non mancano. Questa nuova rivalutazione delle pensioni consentirà allo stato di risparmiare circa 37 miliardi di euro in dieci anni. Anche qualora dopo il 2024 si dovesse tornare al sistema attuale, gli effetti della deindicizzazione per gli assegni più alti si trascineranno per sempre, dato che questi saranno rivalutati anno dopo anno partendo da una base comunque più bassa.

E c’è un’altra ipotesi ventilata dal governo, seppure per il momento rimasta ufficiosa: la rivalutazione delle pensioni ogni tre mesi. La formula non è di per sé innovativa. Era così fino al 1992, quando il governo decise di passare alla rivalutazione annuale. Cosa significa? Gli assegni sarebbero aumentati sulla base del tasso d’inflazione non più a gennaio di ogni anno, bensì ogni tre mesi rispetto all’andamento dell’indice dei prezzi al consumo dell’ISTAT nel trimestre passato.

Ad esempio, se nel trimestre gennaio-marzo i prezzi al consumo risultano cresciuti del 2%, dal mese di aprile e fino a giugno gli assegni saranno aumentati del 2%. E così via di trimestre in trimestre. Tecnicamente, però, ci sarebbe il problema di far partire gli aumenti subito dopo la fine di un trimestre. Ad esempio, il dato sull’inflazione di marzo è reso noto dall’ISTAT in via definitiva solo a metà aprile. L’INPS non farebbe in tempo a rivalutare gli assegni già per aprile stesso, ma semmai da maggio.

Rivalutazioni delle pensioni trimestrale, per chi e quando

Tuttavia, la novità non riguarderebbe tutti i pensionati. La rivalutazione delle pensioni con cadenza trimestrale sarebbe limitata ai percettori di importi fino a 4 volte il trattamento minimo. Perché? Sarebbe un modo per offrire sollievo già in corso d’anno ai pensionati che più ne avrebbero bisogno. Del resto, è accaduto così anche quest’anno, quando il governo Draghi ha deciso in via straordinaria di anticipare l’erogazione del conguaglio a novembre solo per i percettori di assegni fino a poco meno di 2.700 euro al mese.

Inoltre, la rivalutazione delle pensioni ogni tre mesi scatterebbe solo in presenza di un tasso d’inflazione del 10%. La ragione è semplice: se il costo della vita continua a salire troppo, i pensionati con assegni bassi non potranno attendere la rivalutazione per l’anno successivo. Nel frattempo, infatti, subirebbero i rincari e perderebbero potere di acquisto. Il punto è che una simile soluzione comporterebbe un maggiore esborso per lo stato. Si tratterebbe di anticipare una maggiore spesa, che ad oggi è caricata integralmente all’anno successivo con il conguaglio.

Di fatto, gli assegni non aumenterebbero di più o di meno nel tempo. Semplicemente, sarebbero adeguati più velocemente. Un segno dei tempi. Sembra di tornare agli anni bui della scala mobile, quando l’inflazione mordeva e stipendi e pensioni erano agganciati trimestralmente per proteggere il potere di acquisto delle famiglie. A novembre, l’inflazione annuale in Italia restava invariata all’11,8%. Dopo anni sotto il tasso medio dell’Eurozona, da ottobre è salita sopra di esso. Nell’Area Euro, infatti, l’indice dei prezzi è sceso a novembre al 10%.

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