Petrolio e ricchezza sono un binomio non scontato. E la Nigeria ce lo insegna. Potrebbe essere una delle economie più ricche del pianeta, mentre dispone di un PIL pro-capite di appena 2.200 dollari. Considerata, almeno fino a qualche anno fa, la “stella dell’Africa”, non riesce a mettersi in carreggiata dopo la crisi delle quotazioni nel 2014. Lagos reagì al tonfo mantenendo il cambio fisso e istituendo il Nafex, un tasso di cambio per investitori ed esportatori un po’ più debole del “peg” ufficiale.

Ma fu troppo poco per difendere le riserve valutarie e attrarre capitali esteri. Le prime di dimezzarono tra il 2013 e il 2016, segno che il cambio fosse rimasto irrealisticamente forte.

Il petrolio non incide più di tanto sul PIL nigeriano, semmai per un 9% scarso. Eppure, esso alimenta il 60% delle entrate statali e il 90% dell’afflusso di valuta estera nel paese emergente. Nel 2020, le estrazioni giornaliere si attestarono oltre i 2 milioni di barili al giorno, a fronte di riserve petrolifere accertate per 39 miliardi di barili.

Dal 2014, il governatore centrale Godwin Emefiele ha svalutato il naira per quattro volte, di cui due nel corso dell’anno passato. Complessivamente, il cambio è stato indebolito del 57% a 380 contro il dollaro. Il Nafex, tuttavia, scambia a circa 408-9 e di recente segnala una minima ripresa grazie alla risalita delle quotazioni petrolifere sopra i 60 dollari. Tuttavia, al mercato nero un dollaro si acquista per circa 480 naira, per cui il cambio ufficiale e lo stesso Nafex continuano a restare sopravvalutati.

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Svalutazione necessaria, ma difficile

La riforma del cambio è invocata da anni da organismi internazionali come il Fondo Monetario, che ha elargito un prestito di 7 miliardi alla Nigeria, ma sta bloccando l’erogazione di una tranche da 1,5 miliardi proprio per l’assenza di interventi del governo sul tema.

Pressato anche dalla carenza di capitali esteri, il governo ha annunciato che le stesse agenzie dello stato adotteranno il Nafex per importare beni e servizi. Un passo che va nella giusta direzione, ma che resta insufficiente. Solo l’unificazione dei tassi di cambio consentirà all’economia di riprendere a camminare sulle proprie gambe.

Perché governo e banca centrale temporeggiano? Una svalutazione tout court aumenterebbe i prezzi dei beni importati e accelererebbe il tasso d’inflazione, che già a febbraio risultava salito al 17,3%. Peraltro, i prezzi di carburante e bollette della luce sono fissati sulla base del “peg” ufficiale, per cui l’impatto per le famiglie sarebbe sensibile. Ma c’è molto di più: la Nigeria spende il 70% delle sue entrate fiscali per sostenere la spesa per interessi sul debito pubblico. Questi è inferiore al 30% del PIL, ma assorbe risorse eccessive, anche perché la capacità di riscossione dello stato è pressappoco nulla.

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Con la svalutazione, aumenterebbe il peso del debito denominato in valute estere. Questo è stimato nell’ordine dei 27 miliardi di dollari, meno del 10% del PIL. A cascata, la stessa spesa per interessi per servirlo, ad oggi di circa 1,5 miliardi di dollari all’anno, lieviterebbe in valuta locale, finendo per mandare definitivamente KO i conti pubblici. Non è un problema di facile soluzione, anche se i prestiti dell’FMI da un lato e le prospettive di crescita dall’altro, grazie anche al ri-afflusso dei capitali esteri, dovrebbero incoraggiare Lagos a compiere il passo giusto. Del resto, così l’economia non ha futuro. Pensate che nel 2020 le quotazioni del greggio necessarie per far tendere il paese al pareggio di bilancio superavano i 130 dollari al barile. Pur dopo la netta risalita di questi mesi, si aggirano a meno della metà.

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