Un fatto storico segna la fine di una lunga era in Amazon. Qualche giorno fa, 2.654 lavoratori hanno detto sì alla formazione della prima organizzazione sindacale. Ad opporvisi sono stati 2.131. La votazione è avvenuta nel magazzino di JFK8 di Staten Island a New York. Nasce così Amazon Labour Union (ALU) di Christian Smalls, un ex lavoratore del colosso americano. La sua battaglia è durata due anni, da quando con la pandemia decise di protestare fuori dallo stabilimento contro le condizioni dei lavoratori sotto il Covid.

L’azienda lo licenziò in tronco, ufficialmente per avere infranto le norme sanitarie. Ma in tanti ritennero che quel licenziamento fu dovuto proprio alla protesta.

Senonché Smalls non si perse d’animo e da quel giorno iniziò a organizzare incontri e barbecue con i suoi ex colleghi, aspettandoli costantemente anche alla fermata del bus per convincerli a votare a favore della nascita del sindacato. I manager di Amazon hanno speso nel frattempo 4,3 milioni di dollari per dare vita a una campagna contro la sindacalizzazione dei loro lavoratori. L’azienda alla fine ha ceduto sulla votazione, ma si aspettava un altro successo dopo quello riscosso un anno fa nel magazzino di Bessemer, in Alabama.

Solo che stavolta le cose sono andate diversamente. Smalls non era legato ad alcuna organizzazione sindacale, la sua è stata una battaglia indipendente, diversamente da quella fallita del sindacato RWDSU, che rappresenta i lavoratori del commercio. Sarebbero già una cinquantina in una dozzina di stati americani i magazzini Amazon in contatto con ALU per chiedere votazioni anche da loro. Jeff Bezos, l’uomo più ricco del mondo, riporta forse la sua più grande sconfitta in 27 anni di storia della società.

Amazon e l’ipocrisia progressista di Bezos

E pensare che a gioire siano stati la Casa Bianca, oltre che diversi esponenti del Partito Democratico, tra cui Alexandria Ocasio-Cortez.

Bezos sostenne proprio Joe Biden alle elezioni presidenziali del 2020, così come aveva sostenuto Hillary Clinton contro l’odiato Donald Trump nel 2016. Pensava forse che sarebbe sfuggito alle richieste di parte dei lavoratori Amazon rifugiandosi a sinistra. Non è andata così. Le azioni della società hanno ripiegato dopo la sconfitta e adesso ci si chiede quali possano essere i risvolti per un colosso, che ha fatto della snellezza organizzativa il suo vero punto di forza. Spedizioni velocissime, sicure e a basso costo sono stati gli ingredienti di successo di Bezos. Reggeranno alla possibile onda d’urto della sindacalizzazione di Amazon?

E quali sono stati i fattori che hanno reso possibile proprio adesso dopo tanti anni la nascita del sindacato? L’America è attraversata in questo periodo da un fenomeno definito “Great Resignation”. In pratica, milioni di lavoratori stanno lasciando il posto senza averne già a disposizione un altro con certezza, in cerca di migliori condizioni retributive e contrattuali. A febbraio, sono stati in 4,4 milioni e i posti di lavoro disponibili 11,3 milioni. La paura di essere licenziati è molto bassa, perché il lavoro non manca. E questo spiegherebbe almeno in parte la vittoria del sindacato.

Tuttavia, essa è avvenuta in una città – New York – tutt’altro che in forma smagliante sul piano economico. Boom della criminalità e disoccupazione al 7,6%, più del doppio del 3,6% nazionale, il dato più basso da mezzo secolo a questa parte. La Grande Mela soffre per le conseguenze della pandemia, con uffici, attività commerciali, ristorative e dell’accoglienza chiusi e residenti in fuga altrove per lavorare da casa in smart working a costi più bassi. Rispetto al periodo pre-Covid, in città mancano all’appello 400.000 occupati. In teoria, New York sarebbe stata la realtà meno adatta per assistere proprio in questa fase alla nascita del primo sindacato Amazon. Evidentemente, i lavoratori stanno pretendendo migliori condizioni contrattuali proprio laddove il costo della vita è diventato insostenibile persino per la classe media agiata.

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