Borse mondiali inquiete e governi pure. I dazi imposti e altri annunciati dall’amministrazione Trump stanno seminando molte paure sui mercati, dove inizia a farsi serio il timore che la globalizzazione come l’abbiamo sinora intesa possa presto cedere il passo a un mondo commercialmente meno aperto, un po’ come se tornassimo indietro di qualche decennio, se non agli anni Novanta. E’ accaduto quello che era prevedibile, ossia che le “vittime” della globalizzazione hanno pian piano mutato le loro preferenze politiche, anche superando gli steccati ideologici tradizionali, mandando al governo personalità interpreti di istanze di tutela da quella che avvertono essere una gestione sbagliata delle relazioni commerciali tra economie mondiali.

L’esempio più illustre è arrivato proprio nel 2016 con l’elezione di Donald Trump a presidente americano, grazie ai voti determinanti dei lavoratori della Rust Belt, quella “cintura rugginosa” che si estende dal nord-est fino al midwest e che si sono affidati al candidato repubblicano, percepito come più rassicurante per le sue posizioni critiche contro la concorrenza della manifattura straniera, cinese in testa.

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E qualche mese prima, ossia ben due anni fa esatti, una ventata di ostilità contro le politiche globaliste era arrivata da Londra, dove un referendum sulla permanenza del Regno Unito nella UE vide la vittoria clamorosa dei “Leave”. Elezione dopo elezione, i cittadini di un numero sempre maggiore di stati boccia ormai i partiti tradizionali, a tutto vantaggio di quelli contrari alla globalizzazione o alle modalità con cui si è tradotta da qualche decennio a questa parte.

Eppure, i mercati aperti hanno portato grandi benefici per tutte le fasce sociali. Se oggi possiamo acquistare beni e servizi a prezzi contenuti e scegliendo tra una varietà sterminata di offerte concorrenti, è solo grazie alla globalizzazione, che ha creato un mercato virtualmente mondiale, in cui tutti possono comprare tutto e dappertutto.

In un certo senso, la globalizzazione ha portato a una maggiore democrazia economica, pur spesso nella forma di consumi massificati. Si pensi al fenomeno della “fast fashion”, ovvero alla possibilità per tutte le tasche di vestirsi con poco denaro, risparmiando spesso sulla qualità e puntando su cambi di stagione ben più frequenti che in passato. Anche ciò è il frutto del mercato globale e del boom di internet. E sempre la globalizzazione ha accelerato il progresso della tecnologia e, quindi, dello sviluppo anche economico, grazie alla circolazione delle conoscenze, delle idee e dei capitali.

Il necessario “salto” tecnologico

Se tutto ciò è vero, allora perché percentuali elevate di cittadini nell’Occidente opulento percepiscono questa fase storica negativamente? Partiamo da una premessa: la globalizzazione, mettendo in concorrenza imprese e lavoratori di economie ricche con quelli di economie più povere e comportando la specializzazione produttiva di ciascuna in quel comparto in cui gode di un vantaggio competitivo, si suole affermare che implichi un’accentuazione delle disuguaglianze nelle prime e una tendenziale riduzione nelle seconde. Perché? Se la Germania è avanti nella produzione di beni ad alto contenuto tecnologico e la Cina in quella di beni a basso contenuto tecnologico, ciascuna si concentrerà nei rispettivi comparti in cui gode del vantaggio competitivo. Pertanto, le imprese tedesche esporteranno macchinari e quelle cinese prodotti tessili. A tale fine, le prime impiegheranno sempre più operai specializzati e gli impiegati con titolo di studio medio-alto, le seconde operai poco qualificati. Di conseguenza, in Germania aumenteranno le retribuzioni dei lavoratori qualificati e si ridurranno quelle dei lavoratori non qualificati, questi ultimi esposti alla concorrenza cinese. In Cina, avverrebbe l’esatto contrario, ovvero si realizzerebbe una convergenza dei redditi, mentre in Germania una divergenza.

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La realtà si sta mostrando ben più complessa, ma il funzionamento-cardine della globalizzazione si mostra grosso modo questo.

La disuguaglianza sociale tende a crescere nell’Occidente ricco e a ridursi presso le economie emergenti, dove i livelli di povertà assoluta sono diminuiti ai minimi di sempre. Dunque, nonostante gli indubbi benefici di cui sopra, l’apertura dei mercati sta creando rabbia e frustrazione tra ampie fette della popolazione più benestante del pianeta, mentre incontra un crescente favore tra i paesi più poveri, che in essa vi vedono l’opportunità di uscire finalmente dalla miseria.

Come uscire da questa disaffezione in casa nostra? L’Italia è l’esempio lampante di come un’economia ricca abbia subito negativamente l’impatto della globalizzazione, non riuscendo a sfruttarne le potenzialità, rimanendo ferma nella struttura produttiva esistente ai tempi in cui la concorrenza risultava limitata a economie di grado omologo di ricchezza. Piccole imprese attive nella produzione di prodotti a basso contenuto tecnologico e, pertanto, esposte alla concorrenza delle economie emergenti, non riescono né a mantenere i livelli produttivi, né a garantire retribuzioni soddisfacenti ai dipendenti. Per spezzare questo circolo vizioso, bisognerebbe puntare sul “salto” tecnologico, che a sua volta presupporrebbe una maggiore preparazione dei lavoratori. Sarà un caso, ma l’Italia in Europa possiede tra le percentuali di laureati più basse. Può un’economia compiere il salto richiesto senza un congruo numero di manodopera sufficientemente dotata di conoscenze medio-alte?

Servono riforme economiche, non chiudersi

A ciò si aggiunge una “pecca” che caratterizza gran parte dell’Europa, ovvero il non essere stata in grado di riformare i propri sistemi sociali e fiscali prima ancora che iniziasse la terza fase della globalizzazione, con l’ingresso nel 2001 della Cina nel WTO. Come si può competere con Pechino, se la pressione fiscale supera spesso abbondantemente il 40% del pil nel Vecchio Continente e il taglio delle tasse è reso difficile dall’elevata spesa previdenziale, assistenziale e da un invecchiamento inarrestabile della popolazione? Anche quando potrebbero, molte imprese decidono oggi di produrre altrove, ovvero dove le normative contrattuali, sindacali, ambientali, fiscali, etc.

, si mostrano più morbide e meno opprimenti. In sostanza, ci stiamo accorgendo che la concorrenza non stia avvenendo sempre e solo tra economie alla pari sotto il profilo giuridico e ciò “ruba” posti di lavoro all’Occidente, a tutto beneficio delle emergenti.

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Riassumendo: avremmo bisogno di una specializzazione produttiva in comparti molto tecnologizzati, anche perché lo sviluppo tecnologico in un’economia matura appare ormai l’unico vero fattore di crescita. Per fare questo, dovremmo riformare l’istruzione, puntando sull’acquisizione di maggiori conoscenze specifiche, nonché su un sistema di formazione continuo, che non si arresti con la fine degli studi scolastici, ma che prosegua anche dentro gli stabilimenti. Al contempo, ci sarebbe bisogno di rilanciare la nostra competitività tagliando le tasse, rendendo più agevole e conveniente fare impresa e attirando i capitali con un apparato normativo molto più “business-friendly”. Peccato, però, che spesso la reazione alle conseguenze negative della globalizzazione vada nel senso di pretendere di chiudere i mercati e di imporre regole restrittive sul business. Del resto, è pur vero che, mentre chiediamo la salvaguardia dei nostri posti di lavoro, reclamiamo standard ambientali e di sicurezza sempre più elevati e stringenti, dimenticando spesso come l’una non sia perfettamente compatibile con gli altri, almeno non in un mondo globalizzato e asimmetrico. Servirebbe che davvero la globalizzazione cessasse di esistere solo per qualche mese nel mondo, il tempo necessario per comprendere da consumatori e lavoratori quali siano stati i suoi benefici “invisibili” negli ultimi decenni. Perché si sa, fa molto più rumore un albero che cade, anziché un’intera foresta che cresce.

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