E anche l’Italia potrebbe avere presto il suo fondo sovrano. Il Parlamento sta andando in quella direzione dopo che la Commissione Bilancio della Camera ha approvato un emendamento al Dl Rilancio, presentato dall’onorevole Sestino Giacomoni (Forza Italia), che è anche presidente della Commissione di Vigilanza su Cassa depositi e prestiti. L’obiettivo è di convogliare il risparmio degli italiani verso l’economia reale, attraverso la CDP, ma “assicurando il massimo coinvolgimento delle società di gestione del risparmio italiane per evitare ogni possibile effetto di spiazzamento del settore private capital”.

L’esempio a cui tutti guardano è quello della Norvegia, che nel 1994 diede vita a un fondo sovrano, il quale oggi vale oltre 1.000 miliardi di dollari, più del doppio del pil dello stato scandinavo. Tutto bello, se non fosse che Oslo alimenti quel fondo con i proventi del petrolio, che non risulta essere una materia prima disponibile nel sottosuolo del nostro territorio nazionale. Accertato ciò, con quali denari alimenteremmo il fondo sovrano? Lo spiega lo stesso emendamento: con i risparmi degli italiani.

Un esempio simile si ha oggi in Giappone, dove il fondo da 1.500 miliardi di dollari risulta di fatto primo al mondo per dimensioni e investe i suoi assets per finalità previdenziali, convogliando i risparmi dei cittadini attraverso le poste. Anche in questo caso, però, esiste una notevole differenza: Tokyo non investe esclusivamente in assets domestici, anzi negli ultimi tempi sta puntando sempre più sui mercati esteri per garantire ai sottoscrittori un rendimento minimo accettabile, dati quelli magrissimi in patria.

Il fondo sovrano del Giappone investirà su altri 11.000 miliardi di yen all’estero

Una patrimoniale mascherata

Nel caso del fondo sovrano italiano, saremmo in presenza di investimenti esclusivamente domestici, a sostegno delle aziende nazionali. Le intenzioni sono buone, il mezzo lascia a dir poco perplessi. Anzitutto, questo è quanto già fa da anni la CDP, che ricordiamo essere la longa manus del Tesoro per sostenere il sistema industriale tricolore.

L’ente si finanzia attraverso l’emissione di Buoni fruttiferi, distribuiti da Poste Italiane e sottoscritti dai clienti. Per quale motivo avremmo bisogno di un doppione, per giunta gestito sempre da CDP? Semplice, perché gli investimenti che questa può effettuare sono solo quelli in aziende sane, ovvero che non minaccino potenzialmente i risparmi degli italiani impiegati.

Per questo, ad esempio, la CDP non ha potuto intervenire in casi come l’ex Ilva e Alitalia, trattandosi di società in perdita e, almeno nel secondo caso, di fatto fallite. Dunque, si vorrebbe trovare un escamotage per salvare con soldi pubblici le aziende decotte senza accollarne formalmente il peso allo stato, ma creando una contabilità parallela finanziata dai contribuenti/risparmiatori? Questo sembra il vero fine di questa finta rivoluzione, che rischia di rivelarsi una tragica buffonata a spese dei soliti. Di fatto, in questi mesi ce lo stanno gridando in tutte le salse che lo stato dovrà attingere almeno a parte di quei quasi 1.500 miliardi di liquidità parcheggiata in banca per finanziare il debito pubblico ancora più monstre al termine di quest’anno.

Il presidente della Consob, Paolo Savona, nell’evocare i BTp “di guerra”, qualche settimana fa lo ha spiegato con termini espliciti: o gli italiani accettano di investirvi o creeranno le condizioni affinché la pressione fiscale salga. In parole ancora più povere: o comprate titoli di stato o vi arriva una bella patrimoniale e sarà stata colpa vostra.

I BTp irredimibili di Savona hanno il sapore di un ricatto ai risparmiatori italiani

Gli italiani non si fidano dello stato

Se gli italiani volessero investire nella cosa pubblica, lo farebbero più direttamente attraverso i BTp. Evidentemente, non si fidano o non ritengono sufficiente che uno stato fallito come il nostro offra rendimenti così bassi, dato il rischio teorico di finire a gambe per aria.

In Giappone, non solo il problema non viene percepito, ma dovremmo ricordarci che quel paese vanti una posizione finanziaria netta molto positiva verso l’estero, nel senso che i cittadini risultano investitori netti di assets stranieri molto più di quanto non lo siano quelli stranieri di assets nipponici. Dunque, lì c’è abbondanza di capitali da impiegare, qui si sta semplicemente cercando il mondo di trasformare i risparmi privati in capitali a disposizione dello stato.

Con quali rischi? Investire solamente in patria va contro i concetti basilari di diversificazione del portafoglio, che valgono anche sul piano geografico. Poiché gli investimenti in aziende sane e con progetti credibili di crescita sarebbero già oggi sostenibili dalla CDP ricorrendo al risparmio privato, è di tutta evidenza che con lo pseudo-fondo sovrano si punti a convogliare la liquidità verso assets molto rischiosi, magari al solo fine di cercare di preservare la pace sociale nel prossimo futuro, quando molte imprese potrebbero fallire, lasciando i lavoratori in mezzo alla strada.

Oltre un decennio fa, ci provò l’allora ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, a fare qualcosa di simile con l’istituzione della Banca del Mezzogiorno. Abbiamo visto tutti con quali “eccezionali” risultati. Il sud non risulta avere beneficiato di un solo zero virgola di crescita dalla nascita dell’ennesimo carrozzone pubblico. Non fatevi fuorviare dalle belle parole che verranno sprecate per benedire questo sedicente fondo, il quale dovrebbe più onestamente essere ribattezzato “fondello” sovrano. Con la speranza che l’italica concretezza delle famiglie non ceda alle corbellerie che verranno propinate dalla politica in cerca di quattrini e dalla cialtronesca cassa di risonanza dei loro media sussidiati.

Mentre Conte adombra una patrimoniale per gli italiani, butta altri 3 miliardi con Alitalia

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