Il debito pubblico in Italia a dicembre si sarà attestato verosimilmente in area 2.700 miliardi di euro, pari a poco più del 150% del PIL. La discesa rispetto all’anno nero della pandemia c’è stata, ma le cifre rimangono altissime. E il governo, ad iniziare da quello guidato da Mario Draghi, sarà presto chiamato a fare ordine nei conti pubblici. Indipendentemente dalla riforma del Patto di stabilità, sulla quale le cancellerie saranno al lavoro dalla primavera di quest’anno, l’Italia avrà l’esigenza di tendere al pareggio di bilancio per ridurre in misura credibile e rassicurante il rapporto tra il suo stock debitorio e il PIL.

Piaccia o meno, il governo dovrà fare cassa. E ci sono già un paio di misure sotto il naso del Ministero di economia e finanze. Nei mesi scorsi, l’esecutivo ha varato una riforma del catasto apparentemente senza conseguenze immediate per i contribuenti. Essa entrerà in vigore dal 2026 e prevede sostanzialmente l’aggiornamento dei valori immobiliari iscritti al catasto e risalenti oramai al 1989, oltre trenta anni fa. L’intento dichiarato di Palazzo Chigi e Tesoro sarebbe di fornire all’Agenzie delle Entrate dati statistici aggiornati per avere una fotografia reale del patrimonio immobiliare nazionale. Parole vuote e, soprattutto, ipocrite. Che se ne farebbe il Fisco di una bella foto?

La riforma del catasto è oggetto degli appetiti dei governi che si sono succeduti nell’ultimo decennio. Nessuno è riuscito a vararne una per le sue implicazioni impopolari. Aggiornare i valori degli immobili significa aumentare le tasse sulla casa. Quand’anche lo stato decidesse di ridurre proporzionalmente le aliquote fiscali, il peso tra i contribuenti si redistribuirebbe ugualmente. Per alcuni andrebbe bene, per altri male. In generale, se ne avvantaggerebbero i proprietari di case nelle periferie e in aree economicamente depresse, mentre ne uscirebbero colpiti i proprietari di case in centro e in aree in crescita socio-demografica.

Tasse su case dopo la crisi sanitaria

In realtà, i valori catastali servono per il calcolo di tutta una serie di imposte, tra cui per determinare l’ISEE. In gioco, quindi, non vi sarebbe solamente l’IMU. Peraltro, questa imposta insiste dalle seconde case in poi. Non è un mistero che l’Europa la vorrebbe applicata già sulle prime case, come si è fatto sfuggire nei mesi scorsi il commissario agli Affari monetari, l’italiano ed ex premier Paolo Gentiloni. Del resto, emerge dai dati ISTAT e Banca d’Italia, che le abitazioni nel nostro Paese alla fine del 2020 valevano complessivamente 5.163 miliardi di euro, quasi la metà dell’intera ricchezza lorda delle famiglie. E a Bruxelles si ragiona in modo semplice: “lo stato italiano è povero e gli italiani sono ricchi”, continuano a sostenere i commissari.

Le tasse sulla casa non saranno l’unica via per fare casa. Vi ricordate la proposta di Enrico Letta, segretario del PD, di aumentare l’imposta di successione per offrire una “dote” di 10.000 euro ai diciottenni? Fu tacciata di demagogia dai più e non ebbe successo. Il premier replicò in conferenza stampa che “questo è il momento di dare e non di prendere”. Ebbene, Mario Draghi o chi gli succederà non offrirà alcuna dote ai ragazzi italiani, mentre è altamente probabile che riveda le aliquote per ampliare la base imponibile. Ad oggi, coniuge, genitori e figli pagano il 4% sui lasciti superiori a 1 milione di euro; fratelli e sorelle il 6% sopra 100.000 euro; altri parenti e affini fino al quarto quadro il 6% senza alcuna franchigia e tutti gli altri l’8%. Avendo l’esigenza di maggiori entrate, il governo abbasserebbe – e anche di molto – le franchigie e al contempo aumentare le aliquote.

Esisterebbe anche la facile soluzione del prelievo forzoso sui conti bancari, ma nei fatti già ci sta pensando l’imposta di bollo a drenare risorse dai risparmiatori a favore dello stato di anno in anno.

Un’imposizione una tantum avrebbe molti effetti indesiderati. Viceversa, stangare le case e le successioni sarebbe più facile; ad esempio, non risulta possibile spostare un bene immobile all’estero per sfuggire alla tassazione. Dunque, dopo la pandemia faremo i conti. La crisi sanitaria ci ha lasciato in eredità un debito da oltre 300 miliardi di euro e che nel lungo termine potrebbe costarci fino a 7-8 miliardi all’anno. Una voce di spesa che andrà coperta al più presto.

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