Se da anni non stacchiamo quasi mai gli occhi dai grafici sullo spread, bisogna ammettere che di miglioramenti ne abbiamo segnati con l’ingresso nell’euro. Lo scorso anno, l’Italia ha speso per pagare gli interessi sul debito pubblico il 3,8% del pil, poco meno di 66 miliardi. Ha ragione il commissario agli Affari monetari, Pierre Moscovici, quando sostiene che il nostro Paese spende più per onorare il debito che non per la scuola, ma c’è stato un tempo in cui gli interessi quadruplicavano le spese per l’istruzione, universitaria esclusa.

Parliamo del non lontanissimo 1993, anno di massima percentuale sborsata rispetto al pil per onorare il debito pubblico, ossia la stratosferica cifra del 12%. In pratica, oltre un quarto delle entrate statali serviva solo a pagare gli interessi. La strada verso il fallimento era dietro l’angolo, poi arrivò l’euro e ci salvò, almeno per un lungo tratto. La marcia di avvicinamento alla moneta unica iniziava ad esitare i suoi frutti sin dal 1994, quando il rapporto tra interessi e pil scendeva di un punto percentuale, assestandosi all’11% fino al 1996, quando il governo Prodi non ebbe mezze misure nel perseguire l’obiettivo dell’ingresso nell’euro, portando l’avanzo primario a quasi il 7% del pil, una percentuale francamente eccessiva, ma che servì a rassicurare sia i partner dell’area che i mercati.

La crisi del debito spiegata bene: Italia strapazzata dalla recessione, non è la pecora nera

L’anno seguente, la spesa per gli interessi in Italia crollava al 9% e l’anno dopo ancora al 7,5%, quando si ebbe la certezza che avremmo abbandonato la lira. Da lì in avanti, è stato un calo dietro l’altro, con la stabilizzazione di questa voce di spesa intorno al 4,5% medio all’anno. Rispetto al 1993, i risparmi possono essere calcolati in 7 punti e mezzo di pil, arrivando a toccare gli 8 punti negli ultimissimi anni, grazie all’azzeramento dei tassi da parte della BCE.

Facendo un calcolo cumulato, si ottiene che rispetto a 25 anni fa, l’Italia risulta avere risparmiato in interessi qualcosa come circa il 145% del suo pil, cioè la media di poco meno di 6 punti percentuali ogni anno. E attenzione, perché non stiamo considerando gli interessi sui minori interessi pagati. In altre parole, se avessimo continuato a sborsare 12 punti di pil per onorare il debito, ci saremmo indebitati per una percentuale certamente maggiore di quella effettiva (sempre fino a quando i mercati finanziari ce lo avessero consentito), per cui avremmo accumulato debiti su debiti.

L’aspetto disarmante di questo racconto è il finale che conosciamo: non solo l’Italia non è un’economia risanata sul piano dei suoi conti pubblici, anzi viene percepita sull’orlo continuo del default e a rischio di permanenza nell’euro. In effetti, se nel 1994 si toccava un rapporto debito/pil record sopra il 121%, adesso risulta ulteriormente salito sopra il 130%, nonostante si fosse stabilizzato appena oltre il 100% prima della potente crisi finanziaria ed economica del 2008. Dunque, quei 145 punti di pil risparmiati in interessi non sono serviti a nulla? La risposta, purtroppo, è parzialmente positiva. L’ingresso nell’euro non ci portò quei benefici propinati dalla classe politica. Non abbiamo goduto di alcuna accelerazione della crescita economica, semmai il contrario; tuttavia, abbiamo attirato la fiducia dei capitali stranieri, tant’è che nel 2010 il 52% del debito pubblico circolante era detenuto da investitori non italiani, quando la quasi totalità di esso agli inizi degli anni Novanta si trovava nelle mani di famiglie e banche italiane.

Sprecato il dividendo dell’euro

E, però, quello che gli economisti hanno sin da subito definito il nostro “dividendo” dell’euro non ha portato a una discesa significativa nel rapporto debito/pil, il quale era rimasto anomalmente alto pure prima della crisi.

Perché? In teoria, se nel 1993 vi era un deficit sopra il 7%, a fronte di una spesa per interessi al 12%, crollando quest’ultima di quasi i due terzi, avremmo dovuto quasi azzerare il disavanzo fiscale, specie se si considera che nel frattempo lo stato italiano ha incrementato le entrate di quasi 2 punti di pil. In sostanza, l’Italia avrebbe dovuto assistere a un crollo del rapporto debito/pil pure in una condizione di bassa crescita, per la sola espansione nominale del prodotto interno lordo, essendosi arrestata la dinamica iniziata con gli anni Ottanta, che vedeva il debito alimentato dagli interessi salati per ripagarlo.

Invece, leggendo i numeri, scopriamo che lo stato italiano non solo non ha approfittato del dividendo, anzi lo ha sciupato. Al netto degli interessi, nel 1993 spendeva quasi il 40% del pil, mentre lo scorso anno oltre il 45%. Questo significa che la spesa pubblica dipendente dal governo e dagli enti locali è salita di 5 punti in un quarto di secolo, ossia di oltre il 10% in rapporto alle percentuali di 25 anni fa. E dov’è andata a finire? La sanità ha assorbito solo in minima parte tale incremento, essendo lievitata la sua incidenza sul pil di appena 1 punto al 6,6%. E bisogna considerare che l’invecchiamento della popolazione negli ultimi decenni giustificherebbe interamente tale trend, crescente in tutta Europa. La Germania, ad esempio, spende nella sanità più di noi, a conferma di come, al netto dei ben noti sprechi e della disorganizzazione del servizio, non sia stata certo questa la voce a divorare le nostre casse pubbliche.

Nemmeno la scuola ha contribuito negativamente alla dinamica della spesa, anzi il suo peso è rimasto inalterato al 3% lungo tutti questi anni. Anche sommando il costo per il mantenimento del servizio universitario, non si muove foglia. L’Italia non ha investito per l’istruzione un solo euro dei risparmi ottenuti sul fronte interessi. I giovani non hanno preso, gli anziani sì.

In effetti, la spesa per le pensioni è passata dal 12,8% al 16,3% nel periodo, segnando una crescita di 3,5 punti percentuali. Se già era alta sul finire della Prima Repubblica, lo è diventata ancora di più adesso. Certo, non sarebbe stato semplice ridurre una voce così squilibrata, anche perché con tutte le riforme possibili, bisogna attendere anni prima di beneficiare dei risultati, ossia man mano che i neo-pensionati e i loro assegni incidono di meno rispetto ai pensionati passati a miglior vita con i loro libretti postali. Tuttavia, è innegabile come le varie riforme intervenute nel tempo, tra cui quella Dini del 1995 e prima ancora la Amato del 1992, non abbiano scalfito il sistema, perpetuando un livello di spesa insostenibile e che ha divorato gran parte del dividendo dell’euro.

Debito pubblico generato per due terzi dalle pensioni

Questioni di scelte politiche, non colpa dell’euro

Contrariamente al pensiero comune, per il resto nemmeno la spesa per i dipendenti pubblici è salita, anzi risulta passata dal 12% al 9,5% e la discesa iniziava già a metà anni Novanta. Pur restando relativamente alta, quindi, non ha contribuito negativamente nella dinamica del debito degli ultimi 25 anni. Riepilogando: lo stato ha risparmiato la media di quasi 6 punti di pil all’anno in interessi sul debito rispetto all’apice del 1993 e da allora incassa quasi 2 punti in più di entrate. In tutto, avrebbe avuto le risorse per più che azzerare il deficit, se non fosse che nel frattempo abbia alzato la spesa pubblica di oltre 5 punti, investendola perlopiù in pensioni e assistenza. Dunque, i conti pubblici sono certamente migliorati, tanto che anche oggi, pur auto-flagellandoci, esibiamo un deficit contenuto intorno al 2% del pil, una frazione rispetto all’era della lira; ad ogni modo, se lo stato avesse interamente investito i risparmi per abbassare la spesa complessiva e portare il bilancio in pareggio, oggi saremmo in tutt’altra situazione.

Tanto per chiarirvi le idee, sfruttando per intero i risparmi per tagliare il deficit sin dall’ingresso nell’euro del 1999, nel 2007 avremmo chiuso con un debito di poco superiore all’80% del pil e probabilmente non avremmo subito la sfiducia dei mercati degli ultimi 7 anni. Ma la storia e i bilanci non si fanno con i “se” e forse sarebbe stato politicamente poco sostenibile un discorso di questo genere, specie considerando che le istituzioni repubblicane erano crollate proprio tra il 1992 e il 1994, mentre si gestiva la transizione verso l’euro. Sta di fatto che la moneta unica in sé ci aveva “regalato” decine di miliardi di risorse da investire altrimenti e se abbiamo scelto di utilizzarle perlopiù per mantenere un sistema di prepensionamenti e di previdenza generosa, pur di non affrontare i drammi della sottoccupazione al sud e di un’industria in declino al nord, la colpa non può essere scaricata sui pur antipatici commissari di Bruxelles.

La crisi di fiducia verso l’Italia è la maledizione che auto-alimenta il nostro debito pubblico

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