In Italia, il 35% dell’acqua si perde a causa di una rete idrica vecchia e fonte di elevate dispersioni, che a Cosenza arrivano al 77%. Sono i dati del Bluebook 2016 di Utilitalia, che ci fanno comprendere come le infrastrutture-colabrodo nel nostro Paese potrebbero provocare una crisi idrica dalle conseguenze potenzialmente drammatiche. Gli investimenti annui necessari sarebbero nell’ordine di 5 miliardi di euro all’anno per i prossimi decenni. Soldi, è bene metterlo in chiaro, che in ogni caso dovremo sborsare, che la gestione dell’acqua sia in mano agli enti pubblici, sia che venga affidata a società private.

E fanno qualcosa come più di 80 euro a testa, una cifra abbastanza elevata, se si tiene conto che oggi spendiamo la media di appena 140 euro all’anno a famiglia per la bolletta dell’acqua, circa 5 volte in meno della Francia. Se anche gli investimenti fossero finanziati interamente con la leva fiscale, a pagare saremmo ugualmente noi, non in qualità di utenti, bensì di contribuenti. E, tuttavia, dato l’alto livello di pressione fiscale, molto difficile immaginare che si possa agire ancora in questa direzione.

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L’Italia ha tra le tariffe più basse nel mondo sviluppato, se si tiene conto che in Danimarca si arrivi a pagare oltre 8 euro per metro cubo e in una città come Milano non si vada oltre gli 80 centesimi. Tuttavia, l’acqua a basso costo non è solo un fatto positivo come crediamo, perché comporta problemi superiori persino ai benefici stessi. Si consideri che l’Europa, a fronte di una popolazione pari al 10% di quella mondiale, possiede solo l’8% dell’acqua di tutto il globo, mentre il Nord America vanta il primato di acqua pro-capite, con una popolazione di appena il 5% del totale e ben il 29% delle risorse idriche.

In proporzione, seguono l’Oceania (1% contro 3%) e America Latina (9% contro 16%).

Pagare poco l’acqua significa rischiare di non assegnarle sufficiente valore, ovvero di sprecarla. L’ONU, con risoluzione non vincolante, l’ha definita anni fa “diritto umano”, espressione in sé allettante, ma che risulta vuota. L’accesso all’acqua da parte di tutti deve restare certamente un obiettivo essenziale, ma è sul come che bisognerebbe concentrarsi, anziché fare battaglie ideologiche, che spesso rinviano l’adozione di soluzioni. La privatizzazione della gestione dell’acqua fa paura in Italia, tanto che un referendum nel 2011 la bocciò come ipotesi. Fu la prima vittoria spuntata da Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo, quando ancora era un fenomeno politico quasi ignoto.

Servono investimenti per ridurre la dispersione

E, però, gli investimenti bisogna farli, altrimenti rischiamo quanto è accaduto l’estate scorsa a Roma, ovvero che milioni di utenti siano quasi rimasti senz’acqua per il fenomeno siccità. In realtà, nella Capitale si ha una dispersione di quasi il 43%, ovvero quasi un litro su due viene perso tra la fonte e il rubinetto. La paura per i privati non è cosa che riguardi solo l’Italia, se è vero che anche negli USA si ha solo un 15% della popolazione coperto da rete idrica gestita da società private. E lì, si calcolano in 1.000 miliardi di dollari in 25 anni gli investimenti necessari per rinnovare le infrastrutture.

Secondo l’ONU, entro il 2050 ben 5,7 miliardi di abitanti sulla Terra rischiano di vivere in aree potenzialmente alle prese con carenza idrica, numero di gran lunga superiore rispetto ai 3,6 miliardi attuali. E la correlazione tra acqua e pil è praticamente del 100%, nel senso che non attecchisce sviluppo economico dove ci sta poca acqua o questa manchi del tutto. Si consideri, poi, che il 70% dei consumi idrici nel mondo avvengono in agricoltura.

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La privatizzazione ha funzionato nel Regno Unito, dove sono stati effettuati investimenti per 126 miliardi di sterline dalle società, mentre le tariffe sono rimaste inferiori a quelle di paesi come Olanda e Germania e in linea con quelle francesi, a conferma che non è affatto detto che dare in gestione l’acqua ai privati debba portare a un’esplosione delle bollette.

Molto dipende dal processo individuato per l’affidamento e dalle politiche perseguite per non mettere in discussione la natura di bene essenziale per l’uomo dell’acqua. In teoria, un privato avrebbe tutta la convenienza a spronare gli utenti a consumare più acqua possibile, in modo da massimizzare ricavi e profitti. Così, però, non si risolverebbe affatto il problema degli sprechi. E allora, si potrebbe optare per una tariffa che contempli esigenze sociali e altre di tipo economiche: prezzi bassi al metro cubo fino a un determinato livello di consumi e l’applicazione di extra-costi sulle eccedenze. In questo modo, l’utente sarebbe portato a consumare il giusto e le società guadagnano dagli “sprechi”. Comunque la si pensi, l’importante è capire che pubblica o privata, l’acqua ci costerà di più e che la scelta, quindi, non sarà tra pagare meno o pagare di più.

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