Ci sono due importanti novità sui tassi, che arrivano dalle prime due economie mondiali. Ieri sera, il presidente Donald Trump ha rilasciato un’intervista, nella quale ha posto sostanzialmente fine a una prassi lunga 25 anni, inaugurata dalla presidenza Clinton, in base alla quale la Casa Bianca non commenta mai, in un senso o nell’altro, le decisioni della Federal Reserve. Cosa ha detto Trump? In sostanza, che non è “entusiasta” della volontà espressa dall’istituto di continuare ad alzare i tassi, spiegando che ogni volta che l’economia americana cresce, la Fed vara la stretta e che fosse per lui non farebbe così, anche se ha aggiunto che ovviamente il governatore Jerome Powell sarà libero di fare ciò che meglio crede.

Analisti e stampa negli USA hanno espresso critiche all’indirizzo del presidente, qualcuno paventando il rischio che la banca centrale americana adesso dovrà alzare i tassi più velocemente di quanto vorrebbe per mostrarsi indipendente dalla politica, rischiando di mandare l’economia in recessione. Altri, tuttavia, hanno fatto notare che da Richard Nixon a George H.W.Bush, passando per Jimmy Carter e Ronald Reagan, i presidenti erano soliti in passato esprimersi pubblicamente sui tassi e quasi sempre per chiedere o lodare un loro taglio.

Quasi certamente, Powell e gli altri membri del board non si faranno impressionare dalle dichiarazioni “irrituali” di Trump, anche perché è noto da tempo che questa amministrazione desidererebbe un dollaro più debole. Certo è, però, che il presidente ha toccato un nervo scoperto. Da settimane, i mercati si chiedono se e fino a quando la Fed continuerà ad alzare i tassi, visto che tutte le altre grandi banche centrali non hanno ancora nemmeno iniziato ad avviare la stretta monetaria. I contratti “forward” sul cambio euro-dollaro avrebbero segnalato già, la settimana scorsa, attese ribassiste del mercato sui tassi USA dal dicembre dell’anno prossimo.

Ad oggi, sono attesi due nuovi rialzi da 0,25% ciascuno per quest’anno e altri tre per il 2019. Dunque, alla fine dell’anno prossimo si arriverebbe al range del 3-3,25%. Il livello in sé non sarebbe affatto elevato, specie se confrontato con la media storica, ma resta il fatto che ancora oggi la BCE tiene i tassi azzerati e probabilmente inizierà ad alzarli solo tra più di un anno.

Cambio euro-dollaro, le previsioni del mercato

Dollaro su, yuan giù

C’è di più. Proprio questa distonia tra Fed e resto del mondo avanzato sta rinvigorendo il dollaro, che negli ultimi 4 mesi è cresciuto mediamente del 7% contro le altre divise, andando nella direzione opposta a quella desiderata da Trump. E nello stesso arco di tempo, la valuta cinese si è indebolita del 7,4% contro il biglietto verde, tanto che sempre ieri il presidente americano ha dichiarato che “lo yuan sta rotolando come una roccia”. Quasi per ironia della sorte, nelle stesse ore giungeva una novità assai sgradita per lui da Pechino: la People’s Bank of China taglia dal 4,3% al 3,73% i depositi del Tesoro a 91 giorni presso le banche commerciali.

La misura è stata irrituale, nel senso che non è stato tagliato in maniera esplicita il costo del denaro, forse perché la banca centrale cinese non vuole segnalare apertamente l’allentamento della sua politica monetaria, temendo la reazione ostile proprio di Trump con nuove minacce sui dazi. Anche due anni fa era accaduto lo stesso e la tempistica ci porta a pensare che l’obiettivo di questa mossa consisterebbe nella volontà di governo e PBoC di sostenere l’economia cinese, in rallentamento al +6,7% nel secondo trimestre di quest’anno. E sempre l’istituto ha adottato un’altra pratica anomala, quando ha raccomandato al Ministero delle Finanze di varare stimoli fiscali. In sostanza, il segnale che giunge da Pechino è chiaro: la Cina sosterrà il suo pil a colpi di deficit e taglio dei tassi.

Una mossa attesa sarebbe l’ulteriore riduzione del coefficiente di riserva obbligatoria per le grandi banche a inizio di ogni trimestre fino ad almeno il primo trimestre del 2019, un modo per aumentare il credito potenziale massimo da erogare all’economia reale, nonostante sia esploso già a non meno del 260% del pil.

Esistono varie interpretazioni sulle mosse della PBoC. C’è chi, come lo stesso Trump, crede che stia svalutando lo yuan e chi, al contrario, nota il tentativo dell’istituto di frenare il deprezzamento del cambio per non incorrere in una nuova estate 2015, quando si registrarono enormi deflussi di capitali dal paese. In effetti, alla Cina non converrebbe indebolire lo yuan, almeno non di proposito, visto che ne vale della sua credibilità come economia di mercato e della relativa capacità di attrarre capitali dall’estero, nonché di internazionalizzare la sua divisa. Ma in tempi di timori su una possibile guerra commerciale, tutto ci voleva, tranne che un taglio mascherato dei tassi a Pechino e un indebolimento del cambio cinese. Adesso, la Casa Bianca avrebbe trovato quella “smoking gun” con cui provare la malafede dei cinesi nelle relazioni commerciali. E di questo passo, le pressioni su Powell, affinché cessi di alzare i tassi Fed, non faranno che crescere. Trump vuole un dollaro più debole per rilanciare le esportazioni a stelle e strisce. Ora che la Cina taglia i tassi, sente o potrà vendere agli americani che vogliono fregare l’America. Ed egli non glielo consentirà più.

I mercati non credono alla guerra commerciale scatenata dai dazi di Trump

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