La morte di Otto Warmbier, lo studente americano riconsegnato dalla Corea del Nord solo una settimana fa alla sua famiglia, dopo 16 mesi di prigionia per avere strappato uno striscione propagandistico, ha scosso l’opinione pubblica mondiale, evidenziando l’assenza dei benché minimi diritti umani nello stato eremita di Kim Jong-Un. Il presidente Donald Trump ha postato un commento eloquente su Twitter, chiarendo di apprezzare fortemente gli sforzi della Cina per tenere sotto controllo Pyongyang, ma di prendere anche atto che finora non avrebbero funzionato.

Eppure, da un alto diplomatico nord-coreano arrivano notizie più che interessanti per una possibile apertura delle trattative con Washington. L’ambasciatore in India, Kye Chun Yong, ha dichiarato che “a certe condizioni”, la Corea del Nord sarebbe disposta a intavolare con gli USA un negoziato per il congelamento dei test missilistici e atomici, a patto che gli americani cessino “temporaneamente o definitivamente operazioni militari congiunte con la Corea del Sud”.

Non è chiaro se il diplomatico abbia parlato in rappresentanza del regime. In passato, chi abbia anche solo esternato un pensiero parzialmente non concordato con Pyongyang ha fatto una brutta fine, per cui dovremmo dedurre che le dichiarazioni di Yong mostrerebbero una timida apertura di Jong-Un agli USA. Se così fosse, sarebbe una vittoria per l’amministrazione Trump nelle relazioni internazionali, in quanto proverebbe come la politica delle minacce sortirebbe i suoi effetti. (Leggi anche: Corea del Nord: Trump pronto a incontro con Kim Jong-Un, che succede?)

Possibile nuovo test nucleare domenica

Alla fine di giugno, Donald Trump incontrerà il presidente sud-coreano Moon Jae, che in campagna elettorale ha promesso un approccio più pragmatico nei confronti della Corea del Nord e meno teso a ricorrere alle armi. Seul e Pechino hanno stretto un’intesa nei mesi scorsi, secondo la quale la Cina interverrebbe militarmente contro il regime nord-coreano, nel caso di attacco contro la Corea del Sud.

Qui vi vivono 28.000 militari americani, che regolarmente si esercitano in prossimità delle acque nord-coreane, in difesa di tutta l’area del sud-est asiatico contro le bizzarrie di Pyongyang.

Il 25 giugno ricorre l’anniversario dell’attacco alla Corea del Sud nel 1950 contro “l’imperialismo USA” e non si esclude che Jong-Un mostri la sua forza, effettuando il sesto test nucleare. Il quinto risale al settembre scorso, data della ricorrenza della nascita dello stato comunista. Le tensioni salirebbero nuovamente alle stelle, se il test fosse effettivamente condotto, precedendo di qualche giorno il vertice bilaterale tra Trump e Jae.

D’altra parte, il regime nord-coreano punta anche a sottrarsi all’eccessiva dipendenza economica, oltre che diplomatica, di Pechino. Il 90% delle proprie esportazioni si hanno verso la Cina, la quale ha già posto l’embargo sul carbone in arrivo dallo storico alleato, creando difficoltà e timori a Pyongyang per le possibili ripercussioni economiche di una simile sanzione, decisa un anno fa dall’ONU. (Leggi anche: Corea del Nord, l’opzione nucleare USA che fermerebbe davvero Kim Jong-Un)

Economia nord-coreana non è solo stato

Per quanto la Corea del Nord resti un regime comunista e uno dei meno liberi al mondo per l’economia, il Financial Times riporta alcuni dati, che puntano a rimuovere alcuni pregiudizi dell’Occidente contro lo stato asiatico. In primis, non sarebbe vero che tutta l’economia venga gestita ancora dallo stato, ma si stima che almeno il 40% dei posti di lavoro nel paese sarebbero riconducibili al settore privato, formando quasi i due terzi del reddito totale.

Se già da molti anni i salari nel settore privato risultavano superiori a quelli del settore pubblico, è solo con l’arrivo al potere di Jong-Un alla fine del 2011 che avrebbero spiccato il volo, staccando nettamente i secondi, crescendo del 1.200% in 10 anni, contro il +250% nel frattempo registrato sai salari elargiti dallo stato.

Questi ultimi si attestano mediamente sugli 85 dollari al mese, quelli privati sui 385 dollari. (Leggi anche: Corea del Nord rischia il collasso)

Settore privato resta informale

Attenzione, però, perché quello che starebbe avvenendo da anni non dovrebbe essere inquadrato come un reale percorso riformatore, quanto una tolleranza del regime per forme di business privato, in modo da migliorare le condizioni di vita dei cittadini. Jong-Un chiuderebbe più di un occhio sulla nascita palese di imprese private, perché sa che questo è l’unico modo per aumentare i redditi interni e l’occupazione, anche se il settore privato continuerebbe a rimanere del tipo informale, escluso dai dati ufficiali. Da qui, forse, la percezione all’estero di uno stato ancorato ai cardini dello stalinismo economico più di quanto non lo sia realmente.

Dai circa 1.000 esuli fuggiti dal paese negli ultimi anni emerge una realtà grigia, in cui i nord-coreani con maggiori disponibilità chiederebbero e otterrebbero dagli appositi ministeri l’autorizzazione (informale) ad aprire un’attività, ma dietro al pagamento di mazzette nell’ordine del 30% del reddito maturato ai funzionari, come se si trattasse di una vera e propria imposizione fiscale.

A Pyongyang, i pochi giornalisti stranieri che hanno avuto la fortuna di visitarla hanno scoperto una realtà ben diversa da quella immaginata, caratterizzata da numerosi grattacieli in centro, da un traffico di auto crescente e da una certa vivacità di negozi e imprese simili a quelli che si vedono nel resto del mondo. Piccoli progressi, che si distinguono per una apparente stranezza: non devono mai (dicasi, mai) essere evidenziati dagli organi di stampa e all’estero. Nessuno deve anche solo lontanamente dubitare dei benefici del comunismo e nemmeno il più fido funzionario di Jong-Un deve porsi il dubbio che il leader stia cercando un’alternativa alla fermezza ideologica con la quale in 70 anni è stata applicata rigidamente la dottrina marxista.

(Leggi anche: Kim Jong-Un, chi è il dittatore che minaccia la guerra nucleare)