La banca centrale turca ha raddoppiato le aspettative d’inflazione per fine anno dal precedente 11,8% al 23,2%. Sempre secondo le stime ufficiali, la crescita tendenziale dei prezzi in Turchia scenderà all’8,2% a fine 2023 e fino a scendere sotto il target del 5% entro il 2024. Sarebbe già malissimo così, se non fosse che gli analisti indipendenti prevedano che l’inflazione in Turchia salirà dal 36% di dicembre fino a un massimo del 50% e per scendere al 27% a fine anno.

Causa principale del boom dei prezzi è il crollo della lira turca, che nel 2021 ha perso il 44% del suo valore contro il dollaro.

A dicembre, il tasso di cambio era arrivato a 18,4, con perdite da inizio anno vicine al 60%. A pochi giorni dalla fine dell’anno, però, il governo ha varato misure per contrastare il collasso del cambio, favorendo almeno un temporaneo rafforzamento. Ieri, un dollaro scambiava in area 13,60 contro la lira turca.

A questo risultato si è arrivati con lo schema di tutela dei depositi bancari in lire. Due le soluzioni offerte al mercato: tassi d’interesse del 3% più alti rispetto al tasso ufficiale (oggi al 14%) sui depositi in lire; remunerazione dei depositi al tasso più alto tra l’interesse offerto dalla banca e il deprezzamento della lira contro le valute forti come dollaro ed euro. In pratica, i risparmiatori turchi non dovrebbero più preoccuparsi di perdere potere d’acquisto a causa della crisi della lira, né per questo convertire il loro denaro in valute straniere. Lo stato garantirà loro interessi a totale compensazione dell’indebolimento valutario.

Inflazione in Turchia autoinflitta

L’intento del governo consiste nel favorire la conversione dei depositi in dollari ed euro in lire. I primi ammontavano al 60% del totale a dicembre, cioè a circa 240 miliardi di dollari. Dall’annuncio di cinque settimane fa, ben 200 miliardi di lire (13,1 miliardi di euro) di risparmi sono stati sottoposti allo schema di protezione dello stato, ma essenzialmente si è trattato di denaro già in valuta locale, mentre le conversioni sono state poche.

Ciononostante, il governatore Sahap Kavcioglu stima che queste ammonteranno a 10 miliardi di dollari.

Non è stata l’unica misura per fermare il collasso del cambio. La banca centrale imporrà una penalità dell’1,5% sui depositi in valute straniere delle banche, nel caso in cui queste non saranno state in grado al 15 aprile prossimo di convincere i clienti a convertire in lire almeno il 10% dei depositi complessivi. Inoltre, i depositi convertiti non rientreranno nel computo delle riserve obbligatorie. E le aziende dovranno cedere alla banca centrale almeno il 25% dei ricavi in valute straniere, attraverso la conversione coattiva.

In sostanza, con le buone o con le cattive i turchi dovranno sganciarsi dal dollaro e preferire la lira. Una soluzione di corto respiro, ma che serve al presidente Erdogan a guadagnare tempo, stabilizzare il cambio e recuperare il consenso perduto in vista delle prossime elezioni nel 2023. Rischia di perdere la carica e la maggioranza in Parlamento per il suo Akp, il partito islamico-conservatore al potere da quasi 20 anni. Nei fatti, siamo a una forma soft di controlli sui capitali, sebbene il governo neghi che abbia anche solo in mente di introdurre limitazioni alla libera circolazione finanziaria. Autodefinitosi “nemico dei tassi d’interesse”, Erdogan non consente alla banca centrale di alzare i tassi con l’inflazione galoppante. Ecco come la crisi della lira sia del tutto autoinflitta, generando esasperazione tra famiglie sempre più in difficoltà nel fare la spesa.

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