Sgombriamo il campo da un equivoco: i governi “tecnici” propriamente detti non esistono. Tutti i governi per Costituzione devono ottenere la fiducia del Parlamento, composto da rappresentanti eletti dal popolo. E, quindi, non esiste esecutivo che non sia politico nel senso pregnante e ambivalente del termine: legato ai partiti e con responsabilità delle scelte decisionali spesso dirimenti per la Nazione. Chiarito ciò, quello che sta per nascere sarà il quarto governo tecnico in Italia in meno di 30 anni. Una patologia, che non ha eguali nell’Occidente.

Il primo di questo tipo fu quello guidato da Carlo Azeglio Ciampi tra il 1993 e il 1994, quando per la prima volta nella storia repubblicana fu nominato premier un non parlamentare. Si trattava del governatore della Banca d’Italia, che decise allora di porsi a capo di un governo composto da ministri politici. Ed è possibile che Mario Draghi replichi questo schema, per evitare gli errori commessi dai suoi predecessori di cui vi stiamo per dire.

Mario Monti come Draghi? Ecco perché sarebbe un governo tecnico molto diverso da quello del Prof

Dopo la breve parentesi di Silvio Berlusconi nel 1994, il suo ministro del Tesoro, Lamberto Dini, già dirigente del Fondo Monetario Internazionale, viene chiamato sempre dal presidente Oscar Luigi Scalfaro a guidare un nuovo esecutivo tecnico, sostenuto dalle forze di centro-sinistra e dalla Lega Nord. Durerà anch’esso poco più di un anno, ma nel frattempo l’Italia riuscirà a varare la più completa riforma delle pensioni sinora approvata in Europa. E con il sostegno di quei partiti, che proprio contro una riforma più morbida del centro-destra avevano mobilitato le piazze.

E arriviamo al 2011. Esplode la crisi dello spread e la figura di Silvio Berlusconi è diventata piuttosto invisa presso le cancellerie straniere. Nel novembre di quell’anno, viene sostituito da Mario Monti, Rettore dell’Università Bocconi di Milano e già commissario europeo alla Concorrenza.

Governerà fino all’aprile del 2013, quando a seguito delle nuove elezioni gli succederà Enrico Letta.

L’incompetenza al potere come motivo di vanto

Cosa hanno in comune queste tre esperienze, più la quarta in itinere? L’idea che il Paese debba affidarsi ai “migliori” nel momento del bisogno. In sé, non è sbagliata, se non fosse per il fatto che la patente di qualità in una democrazia la dovrebbero assegnare gli elettori. E se questi scelgono i peggiori o, comunque, gente che si rivelerà poco qualificata per ricoprire cariche di alto livello, tanto peggio per loro. Fino a quando non ci assumeremo la responsabilità delle nostre scelte in cabina elettorale, non miglioreremo mai né come popolo, né tantomeno come democrazia.

La voglia di competenza è stata piuttosto diffusa negli ultimi tempi, specie da quando la pandemia ha fatto irruzione nelle nostre vite. Dopo anni di lotta al potere politico-istituzionale, percepito come elitario e chiuso (la famosa “casta”), ci siamo accorti che il rimedio è stato forse peggiore della cura. In posizioni-chiave abbiamo avuto personaggi senza curriculum né professionale e né politico. Vi immaginate un Luigi Di Maio alla Farnesina o un Alfonso Bonafede alla Giustizia negli anni Ottanta? Definire un politico incompetente non è un insulto, bensì una semplice constatazione. La competenza la si acquisisce accumulando esperienza e conoscenze in ambito professionale e/o in quello politico. Nessuno nasce “imparato” e nessuno pretende che ai dicasteri vadano necessariamente personalità del mestiere, perché una cosa è fare politica, cioè assumersi la responsabilità delle scelte, un’altra è il compito dei tecnici, che sono i dirigenti che coadiuvano i ministri nel loro operato.

Giulio Andreotti è stato pressoché ministro di tutto nel corso della Prima Repubblica e certamente non era un tuttologo. Eppure, nessuno si sognò allora e a posteriori oggi di definirlo un incompetente, semplicemente perché fu iper-competente in ogni carica che ricoprì.

La differenza tra allora e oggi sta nel “cursus honorum”. I partiti spazzati via dal furore giustizialista di Mani Pulite e con il consenso gaudente degli italiani avevano regole precise per selezionare le rispettive classi dirigenti. In Parlamento entravano, se non i migliori, almeno coloro che avevano esibito qualità tali da segnalare di poter onorare il mandato in maniera dignitosa. I cambi di casacca erano inesistenti, ma il dibattito interno ai partiti era costante, a tratti durissimo, rispecchiando visioni e linee politiche spesso diverse sul Paese.

Germania e Francia litigano già sul dopo Draghi e sperano nel governo tecnico italiano

Dalla Prima Repubblica alla mediocrità come metro politico

Dopo la Prima Repubblica, sono sorti partiti personali, privi di ideologia (termine abiurato, in quanto vetusto) e di idealità. Hanno potuto coesistere in ciascuno di essi esponenti auto-definitisi liberali, socialisti, democratici, progressisti, cattolici, insomma tutto e il contrario di tutto, perché in fondo quasi nessun partito negli ultimi 30 anni ha avuto realmente un’anima e, di conseguenza, un vero programma. E i metodi di selezione interni sono stati a dir poco sbrigativi, consistendo nella cooptazione dell’amico d’infanzia, del collega di lavoro, del personaggio dello spettacolo più o meno popolare. I risultati sono sotto gli occhi di tutti: un disastro etico, ancor prima che materiale.

Ai primi accenni di difficoltà, quindi, l’italiano medio finge di dimenticare di avere premiato con la sua matita proprio gli incompetenti e invoca il governo dei migliori. Ma si tratta di una volontà passeggera, tesa semplicemente a ripristinare in fretta le condizioni per tornare a mandare in Parlamento quelli di prima o volti nuovi, ma persino peggiori.

Il Movimento 5 Stelle ha fatto della mediocrità una propria bandiera. E ha stravinto, perché ogni mediocre trae godimento dallo sbarrare la strada a chi sa essere migliore di sé e si rispecchia nell’ideologia dell’ugualitarismo al potere.

La regola del “uno vale uno”, all’apparenza logica e persino scontata, è stata tramutata in una sorta di appiattimento al ribasso della classe dirigente. Tutti possono fare tutto, perché quelli di prima hanno combinato disastri e peggio sarebbe difficile fare. E, invece, abbiamo vissuto sulla nostra pelle come al peggio non ci sia mai fine. L’Italia è stata guidata da macchiette, uomini e donne senza alcun senso dell’onore e della parola data. I pensieri mutano alla velocità di un post su Facebook o di un cinguettio su Twitter, le linee politiche sono funzionali a superare la giornata, se tutto va bene. E così, abbiamo avuto un premier come Giuseppe Conte, che da “avvocato del popolo” e tutore dell’accordo tra M5S e Lega si è trasformato in pochi giorni nel più strenuo difensore dell’alleanza organica con il PD. Per l’ideologia del “uno vale uno”, Nicola Zingaretti può benissimo essere considerato alla stregua di Matteo Salvini e Silvio Berlusconi può essere riabilitato dopo anni di insulti irripetibili senza scadere nel penale.

L’amore dell’Italia e dei partiti per Draghi durerà poco, come quello per ogni altro suo predecessore tecnico. Quando finirà, gli italiani pensano che potranno tornare a fare sempre come prima, a votare i peggiori, salvo inveire contro di loro alla prima occasione. Ma con l’arrivo di Draghi a Palazzo Chigi e dopo quasi tre anni di legislatura a dir poco schizofrenica e trascorsa all’insegna del più cinico trasformismo, la politica italiana può considerare davvero morta. Stavolta, definitivamente. E poco importa che non sappiamo cosa verrà dopo. L’encefalogramma del Parlamento è piatto da molto tempo. Le speranze che si svegli si sono esaurite.

Così l’ipocrisia di Di Maio farà arrivare un governo tecnico delle tasse

[email protected]