Sono appena trascorsi tre anni esatti da quel 15 gennaio del 2015, quando la banca centrale svizzera (SNB) scioccò il mondo, annunciando che non avrebbe più difeso il cambio minimo di 1,20 contro l’euro, imposto nel settembre del 2011 e sul cui mantenimento aveva assicurato fino a qualche settimana prima. In quei 40 mesi di “peg” introdotto unilateralmente, ovvero senza accordo con la BCE, i flussi di capitali stranieri furono immensi, più che raddoppiando dai 200 ai 460 miliardi di franchi. Per evitare di accumulare eccessivi assets dall’estero e di importare inflazione dall’Eurozona, il governatore Thomas Jordan si vide costretto, suo malgrado, a rimangiarsi la parola data ai mercati.

Lo shock fu violento e brusco: immediatamente dopo l’annuncio, il cambio tra franco svizzero ed euro crollò fino a un minimo di 0,86, ovvero la valuta elvetica si era rafforzata contro la moneta unica di oltre il 25%. Da allora, nonostante l’assenza di un “peg”, la SNB si è comportata come se ne avesse introdotto un altro informalmente e sopra 1,05. Non a caso, anziché diminuire, le riserve valutarie sono aumentate ulteriormente, arrivando al mese scorso a quota 744 miliardi, segnalando come l’istituto abbia continuato ad acquistare euro e dollari, in particolare, al fine di contenere l’apprezzamento del cambio. Si stimano 45 miliardi di euro solo di Bund acquistati da allora. (Leggi anche: Franco svizzero verso il cambio minimo, ma ora la Corea del Nord si mette di traverso)

Esportazioni svizzere bene anche con super-franco

Perché la SNB non ha lasciato che il cambio lo stabilissero le sole forze del mercato? Perché temeva che l’economia elvetica scivolasse verso una lunga deflazione. I prezzi sono scesi effettivamente in Svizzera fino a tutto il 2016, risalendo di poco lo scorso anno. Tuttavia, non solo ciò non abbia avuto effetti negativi sull’economia elvetica, che ha evitato la recessione e ha continuato a crescere, pur a ritmi lenti, ma bisogna registrare persino un’accelerazione delle esportazioni nette, che proprio con l’abbandono del cambio minimo sembrano avere vissuto una stagione migliore.

Alla base della forza della macchina dell’export della Svizzera vi è certamente l’elevata qualità dei suoi prodotti e servizi, poco sensibili alle variazioni avverse del cambio. Il ragionamento, però, sarebbe più complesso. La Svizzera, smettendo di importare deflazione con un cambio sottovalutato, ha vissuto una discesa generalizzata dei prezzi, provocata proprio dal super-franco. Prezzi interni più bassi hanno rinvigorito le esportazioni, rendendole più competitive, con ciò dimostrando che l’imposizione di un cambio minimo e la sua ostinata difesa per quasi tre anni e mezzo siano state inutili, se non dannose per la stabilità macro-economica alpina.

Dopo ben tre anni, il franco svizzero è tornato a scambiare contro l’euro in prossimità dell’ambito 1,20, attestandosi oggi a 1,18. Jordan continua a definire il franco “sopravvalutato” e segnala di voler alzare i tassi non un attimo prima che lo faccia la BCE, mantenendo a tutt’oggi tassi negativi dello 0,75% sui depositi bancari sopra i livelli minimi prefissati e un Libor a 3 mesi anch’esso nel range sottozero (-1,25/-0,25%). Serviranno ancora anni prima che la politica monetaria venga normalizzata. Fino ad allora, l’istituto rischia di espandere eccessivamente il suo bilancio, che già vale ben oltre il pil alpino. La rivalutazione di tale riserve, grazie all’indebolimento dell’ultimo anno, ha consentito alla SNB di segnare profitti record nel 2017, ma se qualcosa andasse storto, come improvvise tensioni geopolitiche o una crisi nell’Eurozona, le quali tornerebbero a incentivare gli afflussi in Svizzera, il quadro muterebbe. Rischi potenzialmente elevati per perseguire una politica del cambio debole, che non sembra del tutto giustificata dai dati. (Leggi anche: Franco svizzero resta sopravvalutato, ma Zurigo cambia tono: che significa?)

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